La gentilezza è l’arma dei più forti (Stephen Littleword)

Il 13 Novembre è la giornata mondiale della gentilezza. Introdotta nel 1998 dal World Kindness Movement, è osservata in molti paesi, tra cui Canada, Giappone, Australia, Nigeria e Emirati Arabi Uniti.
Nella giornata mondiale della gentilezza si invita il mondo a mettere in evidenza le buone azioni nella comunità, concentrandosi sul potere positivo della gentilezza che lega gli uomini.

A partire dal 1998 si è diffusa in tutto il mondo. La bellezza dei piccoli gesti, la pazienza, la cura, l’ascolto dei bisogni degli altri senza perdere mai di vista i propri.

Di seguito alcuni libri sul tema

È facile essere gentili. È sufficiente dire grazie, regalare un sorriso, tendere la mano, condividere… Questo dolcissimo libro insegna che, se siamo gentili con gli altri, gli altri lo saranno a loro volta con noi. Etá di lettura 3 anni

Esistono delle parole che hanno il potere di far spuntare il sorriso. Sono parole magiche e sono talmente semplici che anche i più piccoli le possono imparare. Sono: buongiorno, per piacere, grazie, bravo, benvenuto, scusa, ti voglio bene, ti aiuto io. Sono le parole della gentilezza. Età di lettura: da 3 anni.

Un volume pensato per sensibilizzare i più giovani su importanti tematiche sociali, con un titolo che affronta in particolare il problema dell’egoismo, nelle sue molteplici forme e con le sue spesso terribili conseguenze. I ragazzi troveranno tra queste pagine 10 idee per correggere e migliorare i propri comportamenti in nome della gentilezza, per essere più aperti, inclusivi e rispettosi verso gli altri. A casa, a scuola, per strada… Per rendere il mondo un posto migliore, giorno dopo giorno. Età di lettura: da 7 anni.

La gentilezza custodisce il segreto per instaurare relazioni solide, autentiche, di fiducia, che ci aiutano a conseguire i risultati desiderati in tutti gli ambiti della nostra esistenza privata e sociale. Non ha niente a che vedere con la manipolazione né con l’essere ben educati o manierosi. La gentilezza è un bene complesso e potentissimo, che appartiene a ciascuno di noi, ma che va riscoperto e praticato quotidianamente, perché porti i suoi frutti migliori.

Chiamali se vuoi manualetti

Quando scegli di confrontarti in argomenti delicati, primari come la maternità, la genitorialità e i bambini, è necessario porre molte attenzione alla scelta e all’uso delle parole, al loro significato e alla loro etimologia. Il rischio, nel non porre in attenzione la qualità del nostro dire, è creare confusione, generalità, spazio per opposti schieramenti, faziosità o inutili polveroni. Ecco che è allora utile un’attenta riflessione in merito.

Maternità

Parlare di maternità richiede innanzitutto definirne il termine, per averne maggiore chiarezza.

Winnicott definisce la maternità quale “preoccupazione materna primaria” che nasce dal rapporto empatico che una madre ha con il proprio figlio. Ma perché tale fiducia si stabilizzi, continua Winnicott, è necessario che la madre sia capace di una disponibilità autentica, rinunciando a volersi realizzare come madre perfetta, accettando invece di essere una madre “sufficientemente buona“.

Diventare madri non è un’esperienza semplice, dover gestire quotidianamente un bambino richiede energie, sia fisiche che psichiche, soprattutto quando la società pretende che tu sia una madre buona e perfetta.

Accade quindi che per riuscire a realizzare tale perfezione un genitore, ma soprattutto una madre, a cui viene richiesto un impegno e una disponibilità costante, inizi a leggere, informarsi, ricercando tesi e teorie che riescano a supportare tale idea di compiutezza.

Le teorie pedagogiche sono cambiate nel tempo attraverso l’osservazione e gli studi, e spesso a discapito degli stessi bambini, talvolta anche degli adulti, che hanno subito retaggi di pratiche poco in linea alla crescita armoniosa di un bambino, spacciate come etiche, impedendo di vedere i bambini come persone; o goduto di visioni e lungimiranti saggezze.

Ricordiamo quasi tutti la frase “i bambini vanno raddrizzati finché si è in tempo”: era idea e pratica comune imporre un rigore educativo assimilabile a un fusto vegetale da dover far crescere in altezza ma costretto in una severità al pari di un legaccio per tronchi. Eppure, quanti pedagogisti del nostro ‘900 sono stati ascoltati e le loro pratiche eseguite, anche se avventate o errate? Tanti da esser troppi.

Ancora oggi, nonostante il passare degli anni, molti manualetti di grande successo sono ancora consigliati. Per volerne citare solo alcuni, senza spingerci nel campo dell’editoria che pure comprende manuali sul come insegnare a partorire, dirò dello spietato Estivill, medico catalano che insegnava ai genitori come far dormire un bambino con il suo libro “Fate la nanna”, a Trasy Hogg, puericultrice inglese che scrive “Il linguaggio segreto dei neonati”.

Genitori rimproverati di accorrere troppo velocemente ai bisogni dei bambini, madri sminuite per non essere capaci di partorire senza lamentarsi.

Vorrei soffermarmi nello specifico proprio sul libro di Trasy Hogg, perché io stessa ne ho fatto esperienza. Nel suo volumetto, apparentemente lineare, alterna momenti di riconoscimento dei bisogni del bambino a momenti in cui la richiesta, espressa col pianto, sarebbe da ignorare, rimandare o soprassedere da parte del genitore. Questo temporeggiare, trova risposta educativa nella capacità, spartana per il bambino, di potersi autoregolare e divenire indipendente.

“Quando il vostro piccolo piange, l’istinto naturale sarebbe quello di correre da lui. Probabilmente pensate che sia in difficoltà o, peggio, che il pianto sia una cosa negativa. In realtà è importante imparare a dominare queste emozioni, fermandosi un momento a riflettere.

Ma dopo che ho riflettuto, chiederei oggi a Hogg, aspetto che il bambino o la bambina mi facciano capire se il loro pianto racconti del freddo o della fame, di un dolore o di una difficoltà, dunque intervengo? Oppure, in mancanza di una risposta che non giunge da una riflessione, trascuro l’evento, il pianto, la richiesta?

A volte, involontariamente, si nega l’amore favorendo nei figli quel distacco emotivo, credendolo utile e necessario, soprattutto quando un bambino è molto piccolo. Quanto più piccolo è il bambino tanto più necessita di un adulto per poter sopravvivere. “I bisogni dei bambini sono intensi, urgenti e “inrinunciabili” afferma Antonella Sagone nel suo libro La Rivoluzione della tenerezza.

Riuscire a sintonizzarsi sui bisogni dei bambini richiede un lungo e profondo lavoro personale, l’essere capaci di ascoltarsi, scardinando ciò che è stato, svincolandosi da chi ha orbitato nella nostra vita e non sia riuscito a sintonizzarsi sui nostri bisogni. Da come decideremo di percorrere la strada si determinerà la capacità di ostacolare o imparare ad esprimere un nostro bisogno, senza incolpare chi ci sta accanto di ciò che noi in realtà non siamo stati capaci di esprimere, riuscendo anche nella capacità di suddividere il carico familiare, reso per questo meno oneroso.

Il carico familiare va suddiviso sempre

Sono piuttosto i mondi che ci hanno abitato a dover essere riveduti e corretti, quelli che ci hanno offerto l’esempio, l’idea di comunità, il villaggio che ci ha sostenuti, che ha reso la congiunzione tra il nostro mondo di oggi e quello dei bambini che siamo stati. E c’è poi una vocina che arriva da lontano anch’essa, che ha oggi determinato il cambiamento, l’autorizzazione a dissentire dinnanzi a un atteggiamento. Oggi questa capacità di analisi del vissuto ha offerto ad alcuni genitori la possibile differenza nel crescere un figlio, resistendo alle vecchie pratiche, la consapevolezza, l’idea che qualcosa andava cambiato e che, se il sentire di adulti strideva con l’educazione ricevuta, dunque qualcosa davvero andava rivisto.

Una breve riflessione ancora su quanto detto, ovvero sull’importanza delle parole, sulla successione temporale delle dottrine educative, sul nostro trascorso personale l’ho ritrovata in un testo differente dai canonici testi di divulgazione pedagogica; o forse è proprio grazie a questo, a un suo breve passaggio che nasce l’articolo.

Sto parlando de “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio, edito da Einaudi, e il passaggio è il seguente:

“Adriana teneva il bambino in braccio, già si stava calmando. Lo cullava con movimenti leggeri, il viso ancora rosso e sconvolto, ciocche di capelli appiccicati alla fronte dal sudore. – Come ti sei permessa di toccare mio figlio? – ha detto il padre alzandosi di colpo. La sedia si è rovesciata dietro di lui. Ansimava, una vene in rilievo gli pulsava sul collo. Adriana non lo ha neppure considerato. Ha restituito con delicatezza il bambino a sua madre. – Gli si era incastrata la mano tre le sponde del letto, – ….” “…- Sei stata grande, – le ho detto. – Qualcuno doveva andarci da quella creatura. Non ci hanno pensato che strillava per il dolore? …”.

Una madre e prima di tutto una persona. Questione di priorità

Preparati, la tua vita cambierà”.

Questa è la frase che fa seguito alle felicitazioni per l’arrivo di un figlio. L’abbiamo udita tutte noi madri almeno una volta, in famiglia, fra gli amici, al lavoro.

Ho guardato le risposte ai sondaggi che ho proposto; varie, differenti, ognuna a rappresentare grandi, piccole priorità; perché è proprio di questo che si tratta, ovvero di un “cambiamento” nell’ordine delle priorità personali che la nascita di un bambino rimescola, ribalta, cancella o pone in sospensione.

Ognuna di noi, prima di essere madre, é una persona con interessi diversi, ambizioni più o meno marcate, aspettative…tantissime.

Fate caso al fatto che non si parla già di “persona” affrontando l’argomento, ma di donna e dunque di madre, come se dietro questa nostra identità la persona non fosse mai contemplata, o se lo fosse, davvero poco.

Da quando sono diventata madre, la vita mi è apparsa più morbida, più ampia, come se ciò che ogni giorno faccio avesse adesso una diversa dimensione, una ulteriore dimensione dalla quale posso assaporare quell’essenza alle priorità, che ovviamente restano le mie di sempre, ma su piani differenti.

La cura del corpo, la femminilità vanno curate sempre, ma non è l’unica cosa che a me manca in termini di tempo.
L’idea negativa della donna che non più torna in forma smagliante, che trascura se stessa, sembra essere un pensiero che accompagna molto più le donne nei confronti di altre donne, stereotipando.

Prenditi cura di te stessa e vai a farti bella”!

Non già:

Cosa ti manca come persona”?

A me manca potere sedere in silenzio e leggere un libro tutto d’un fiato. Amo leggere, e non mi piace essere interrotta, ma la sera sono troppo stanca per immergermi in letture che mi accompagnerebbero fino al mattino. E vorrei essere padrona del mio tempo per poter decidere che a mezzodì, invece che preparare il pranzo, possa sedere in poltrona e leggere ciò che più mi piace. Mi manca pensare, restare in silenzio e perdermici dentro. Scrivere senza dover rileggere cento volte ciò che ho scritto, perché interrotta o distratta.

Sono sicuramente una donna migliore da quando è nato mio figlio, e una donna nuova, differente perché madre, ma del tutto simile a prima in quanto individuo.

Non ero pronta a dar credito alla frase sul cambiamento che faceva seguito alle molte felicitazioni sulla maternità. La vita cambia, ma non nell’essere; nei modi e nei tempi sì.

La magia sta forse in questo: restando chi si era, immaginare le proprie passioni e antiche priorità come un tesoro un po’ nascosto da riscoprire pian piano, e assieme al proprio bambino ridarne senso e importanza. Ma pian piano…appunto.

La pedagogia Montessori . La scelta della scuola

Negli ultimi tempi sembra esserci una vera e propria gara per accaparrarsi il nome di Maria Montessori, per la propria scuola, per i giochi, le attività, gli arredi delle camerette. Sembra essere diventato un marchio.

Ma la figura di Maria Montessori è una figura complessa e la sua filosofia, la sua pedagogia e il suo metodo vanno molto oltre una questione di mercato.

La formazione Maria Montessori l’ha portata ad avere attenzione verso lo sviluppo psico-fisico del bambino, osservando le fasi della sua vita.

L’adulto si è sempre preso il merito di essere costruttore dello sviluppo del bambino, come se fosse un vaso da riempire, senza pensare che il bambino ha grandi potenzialità dentro di sé.

Il primo consiglio a chi fosse interessato alla sua pedagogia è quello di leggere almeno le linee fondamentali della sua biografia. Aiuterà a capirne la tenacia, la potenza delle intuizioni, l’audacia, la capacità di visione, il coraggio. Perfino i suoi errori e la storia travagliata della sua maternità saranno utili per capirne il metodo.

Mandare i propri figli in una scuola con metodo Montessori è una scelta saggia, ma serve una consapevolezza importante: la filosofia Montessori deve abbracciare ogni aspetto della vita del bambino, anche a casa. E questo non perché si devono per forza comprare una particolare tipologia di giocattoli o ingegnarsi per fare travasi o fare dormire i bimbi per terra, ma perché la rivoluzione di Maria Montessori sta nello sguardo con il quale si guarda il bambino. Il bambino è il maestro.

La sua voce interiore lo guida verso le esperienze che faranno di lui una persona forte e libera, capace di uno sguardo sano su di sé e sul mondo. L’adulto è un facilitatore di questo processo. A lui il compito di preparare un ambiente che consenta al bambino di assecondare i periodi di sviluppo legati, in ogni fase della crescita, allo sviluppo motorio e del linguaggio.

Nel periodo dai tre ai sei anni c’è una coscienza del bambino molto più chiara. Il lavoro che compie il bambino è quello di impiegare al meglio le proprie potenzialità e perfezionare le conoscenze e competenze.

Per questo quando si sceglie una scuola che si definisce “Montessori” oltre all’ambiente e ai materiali bisogna fare attenzione al modo in cui gli adulti educatori si rapportano ai bambini. Perché se l’adulto è invadente, suggerisce le attività, corregge continuamente, se pensa di sapere cosa il bambino vuole prima di chiederlo al bambino allora…bisogna cercare ancora. Ma senza mai scoraggiarsi.

La ricerca della scuola che più si avvicina a quel che desideriamo per i nostri figli non è facile. Lì dove i nostri bambini sono osservati per essere compresi, con estremo rispetto e lasciati liberi di scegliere quel di cui hanno bisogno, la filosofia Montessori può portare i suoi frutti che sono frutto di libertà e di pace.

Il motore dello sviluppo di tutto è : l’indipendenza.

Avete mai pensato o visitato una scuola Montessori?

Raccontateci la vostra esperienza.

Il ricatto affettivo. La congiunzione ipotetica

Accade spesso che nei confronti dei bambini nasca quello che definirei, da parte dell’adulto, un “gioco di potere”.

È quel se ipotetico, quel ricatto morale o affettivo o di volontà dal quale bisogna rifuggire, fermarsi.

“Se starai buono, ti porterò al parco”, “Se farai come dico, avrai i tuoi giochi”, “Se non mi dai un bacio, non ti vorrò più bene”.

Dietro frasi come queste non emerge nessuna sana relazione affettiva.

Il ricatto emotivo nei confronti dei bambini è una forma di manipolazione che preclude ogni possibilità di scelta.

Purtroppo è una pratica molto comune impiegata quotidianamente nell’educazione di molti bambini.

La leva che muove l’ubbidienza è il senso di colpa, la minaccia, o l’ottenimento di un bene che però ha un prezzo.

Il ricatto è una forma di manipolazione che viene appresa come comportamento, e i bambini possono quindi avvalersene fin da subito o nel futuro che li aspetta. Diverrà anzi una certezza relazionare; la principale modalità d’ottenimento e l’idea che valga anche con i sentimenti.

Dire ai propri figli, attraverso i sé ipotetici, cosa fare e come farlo, riduce al minimo le loro capacità decisionali, creando le condizioni perfette affinché si ribellino e non possano raggiungere una propria indipendenza.

Il ricatto emotivo nei confronti dei bambini è una forma di manipolazione che preclude ogni possibilità di scelta. Forse ci obbediranno, ma probabilmente questa strategia ben presto perderà di efficacia e ci si ritorcerà contro, o peggio, come dicavamo prima, diverrà parte del loro percepire il mondo.

Da un ricatto difficilmente potrà nascere qualcosa di positivo; è piuttosto possibile che i bambini maturino un risentimento a cui non sapranno dare una spiegazione, destinato ad aumentare col passare del tempo.

I bambini sono in grado di capire quando qualcuno cerca di manipolarli molto prima di quanto ci piaccia credere. E a nessuno piace essere manipolato. Proprio per questo potrebbero iniziare a considerare le persone che li ricattano come una minaccia, individui con cui non vogliono avere niente a che fare perché non trasmettono loro sensazioni positive.

Questa non è la strada per un sano percorso educativo.

Ricordiamo che il motore che muove il mondo fonda sull’affettività.

Possiamo aiutare i bambini e noi stessi ad osservare il mondo partecipando in maniera attiva, raccontando loro le conseguenze delle azioni, la causa-effetto di ogni agire, anche e soprattutto quella legata alle emozioni altrui. Sperimentare fa parte del processo evolutivo dei bambini.

Aiutiamoli a comprendere da soli con la chiarezza dovuta.

“Vorrei un bacio da te, perché io e te ci vogliamo bene”.

I “capricci”esistono per davvero?

Il capriccio è un argomento molto dibattuto. Ma esiste poi davvero il capriccio?

Quante volte ci è capitato di assistere a scene di bambini piangenti, urlanti e saltellanti come se il mondo avesse fatto loro la più grossa delle crudeltà?

Iniziamo dicendo che è un comportamento fisiologico che si manifesta sopratutto nei bambini al di sotto dei tre anni.

I bambini in questa fase vivono un turbinio di emozioni che faticano a gestire o comprendere.

Il capriccio può essere però senza dubbio definito, fra i comportamenti fisiologici, una vera e propria crisi di rabbia.

Risulta essere più intenso quanto più si è vicini al diciottesimo mese di vita, per pian piano perdere di intensità verso i tre anni e mezzo.

In questo momento evolutivo, il bambino inizia a individuarsi, raggiungendo una consapevolezza di sé maggiore, differenziandosi dall’altro. Acquisisce una nuova contezza, sia fisica che mentale, imponendo il proprio volere, contrapponendolo in difesa delle proprie ragioni.

Non stiamo parlando, come erroneamente accade, di manipolazione dell’adulto; semplicemente, questi esercita la propria autonomia, sperimentandola attraverso i no e le opposizioni, facendo in modo che vada delineando la propria personalità.

Non possiamo immaginare un percorso differente per la creazione di personalità se non attraverso l’opposizione e la messa in discussione.

Il bambino ha diritto di opporsi, e l’adulto non può far altro che accogliere questa sua opposizione, restituendo il senso del “Comprendo che adesso non hai voglia di fare questa determinata cosa, ma dobbiamo proprio farla”.

In questo modo preserviamo la capacità del bambino di dire no, affermandosi nel percorso di crescita.

Gli adulti incapaci a dire di no, non furono bambini educati in tal senso.

Preservare nel bambino questa capacità, considerandola da una giusta posizione, aiuta anche noi adulti a non porre questa opposizione su di un piano personale.

Capita di non sentirsi ascoltati dal bambino, che fa dunque “ciò che vuole”, ma questo rimando riguarda la nostra vita interiore e non il bambino opponente. Pretendere di risanare le nostre ferite attraverso un atteggiamento accondiscendente da parte del bambino, comporta una sottrazione di personalità, una elemosina d’amore: asseconderà il nostro desiderio, il nostro imperativo, pur di ricevere l’amore che da noi soli può giungere, a discapito di sé stesso e del suo sentire.

Se poi si pretende che attraverso il bambino accondiscendete si possa affermare una qualunque capacità genitoriale, si vuol caricare il bambino di una forte responsabilitá che non gli compete.

Invece, sarà compito dell’adulto, genitore/educatore, valutare se e quando un no possa essere assecondato o meno, o altrimenti aiutato a comprendere che quella determinata cosa non va proprio fatta, per la sua sicurezza (dare la mano attraversando la strada) o per educazione (non spingere il compagno di giochi).

Durante una crisi di rabbia il bambino si disgrega, fatica tenere assieme le parti di sé. Il dolore che prova è reale, non avendo la capacità di gestire da solo questo stato emotivo.

Il bambino, in età prescolare, non avendo ancora sviluppato altre capacità cognitive, sociali, relazionali, tende a manifestare le proprie espressioni di rabbia a livelli molto primordiali. Ciò accade soprattutto in famiglia, perché è l’ambiente che percepisce fiducioso alle relazioni.

Crescendo, e con l’acquisizione di competenze anche linguistiche, il bambino inizierà a spiegare ciò che sente e prova, e sarà più semplice per lui dare un senso alle cose che gli accadono attorno.

Nella gestione di queste crisi è buona regola il prevenirle. Osservare il proprio bambino, cercare di individuare quali sono le circostanze che possano scatenare certe situazioni, questo vi aiuterà certamente a farne fronte. Molto spesso le crisi avvengono quando un bambino è stanco o stressato, quando è stato esposto a troppi stimoli; ecco allora che ridimensionando l’ambiente, gli stimoli, le necessità fisiche come il sonno o la quiete, permetterà un controllo efficace alle emozioni, dal bambino altrimenti ingovernabili.

E quando ormai la crisi è innescata, è utile supportare il bambino attraverso il rispecchiamento emotivo: “So che vorresti continuare a giocare, ma adesso è ora di andare a riposare”.

Sostenerlo emotivamente lo aiuterà a calmarsi, così come lo stargli vicino, affinché il piccolo non si senta lasciato solo in un momento di grande bisogno, anche se la regola o la negazione è dettata da noi stessi. Essere dunque compreso, accettato ed amato in modo incondizionato, dirà al bambino che l’amore dei genitori è più forte e potente delle intense sue emozioni, ma anche che il momento va affrontato, e possibilmente accettato, perché è altro dal rapporto che intercorre fra i soggetti.

“Quando rispecchiate i sentimenti di un bambino diminuite l’intensità della sua rabbia, perché egli si sentirà soddisfatto nel sapere che è al centro della vostra attenzione, e che dunque è stato compreso.”  M.L. Brenner

Concludiamo dicendo che il capriccio in realtà non esiste; è solo un messaggio, comunicato a noi adulti, di aiuto e supporto e sostegno, di attenzione.

È desiderio di essere visti e compresi.

Ricordiamoci, come abbiamo detto all’inizio, che il capriccio è un processo fisiologico che non durerà per sempre, è che come lo affronterà, e cosa riuscirá ad apprendere, dipenderà molto da noi adulti.

La consapevolezza di essere padre, dubbi e certezze.

Quando mi venne chiesto di scrivere sulla figura del padre, immaginai dapprima un lavoro imponente, una analisi impersonale, una produzione letteraria inesauribile, che si ridusse poi alle righe che seguiranno. Mi ero detto che per scrivere con serietà sull’argomento, bisognava farne una indagine sociale e culturale vasta quanto il mondo, dettagliata e meticolosa, storica e geografica, dunque multiculturale. Non ho abbandonato l’idea del cimentarmi un giorno in tale impresa, ma io di mestiere faccio il marinaio e il poeta, non il saggista. Dirò soltanto che evocai dalla nostra parte, dalla parte del padre appunto, parole che appartennero, ahimè, al travagliato mondo delle donne, ma che sentii mie la notte stessa che nacque mio figlio. Parole necessarie, che accompagnarono la lotta alla parità politica e sociale ed economica delle donne, appunto; parole in salita, che con la loro forza livellarono il diritto a esser voce, una voce che scopriremo esser la più forte. Parole conquistatrici che su noi uomini, sulle nostre arroccate posizioni, ridiscendono oggidì la china donandoci un nuovo slancio, una ritrovata libertà e parità, un nuovo e più autentico modo di esser padre. Una rivoluzione insomma.

Possiamo affermare, invero, che cento anni di battaglie al femminile produssero un certame inverso e bellissimo, per noi gratuito e liberatorio. Abbiamo poco o nulla più da dimostrare, poco o nulla più di che mentire a noi stessi. Accudimento, nutrimento, tenerezza, amor palese, albergano al cuore dell’uomo che non ha dismesso la veste del padre, con tutto quello che ciò voglia significare, ma ne hanno arricchito per sempre il compito.

Personalmente ho provato, per un tempo infinito, un senso di colpa cosmica nell’avere attratto a me una coscienza che forse vagava libera nell’universo. Per un tempo infinito, mi sono chiesto da quale stella provenisse mio figlio. C’era un modo per ripagare le forze in gioco?E come espiare il dolore di sua madre che non potei dividere, condividere?

Forse, ancora cinquant’anni fa, non avrei avuto risposte o possibilità di riscatto. L’impossibilità nel poter mostrare al mondo la volontà d’accudimento mi sarebbe stata preclusa dal rispetto alla figura di uomo e di padre dettata dai canoni del tempo nei quali il solo duro lavoro ripagava ogni cosa. Non voglio certo affermare che non amassimo i nostri figli e non avessimo a cuore le loro madri, ma di strada dovevamo ancora farne prima di poter mettere le mani a un pannetto e non venir giudicati per questo; prima di poter assistere alla nascita di un figlio e non scordare mai più chi fosse la donna che si ebbe al proprio fianco. Questa la battaglia inversa, intrisa di parole per la quale esser grati.

La quotidianità e l’impegno tendono ad assopire l’introspezione. La consapevolezza dell’importanza di essere padre riemerge a fatica dalla pratica. Le notti insonni e condivise allontanano dalla riflessione. La conquistata posizione in seno alla famiglia, ripagata sempre dai risultati, non concede tregua all’uomo padre. Siamo più stanchi, più autentici. Ecco che, talvolta, se non interrogati come me adesso, dovremmo poter trovare il modo per interpellare la nostra coscienza e chiedere a noi stessi chi siamo, cosa rappresentiamo, quanto abbiamo da difendere ancora, da dare e da ricevere. Siamo in continuo mutamento, sempre più importanti, sempre più necessari, sempre più fragili, laddove per fragilità si intenda non già quella di una figura frangibile, bensì quell’altra all’occorrenza delicata.

Non sostituiremo mai il simbolismo materno, né lo vorremmo d’altronde, ma l’aver colmato lo spazio vuoto tra il sentimento e la dimostrazione di questo, l’aver reso manifeste a noi stessi le capacità accudenti, getta luce alle nostre vite di uomini di sempre.

Se indago scientemente il messaggio della vita, questa è tramandare. Se sublimo la vita alla condizione umana, questa è tramandare non solo sé stessa ma la consapevolezza di ciò che è bellezza. Essere padre umano contempla i due aspetti, i due messaggi: tramandare il proprio genoma; tramandare tutta quanta la conoscenza e l’individuazione alla bellezza; farne parte; essere soggetto libero e attivo della vita che rinasce.

Quando mi venne chiesto di scrivere sulla figura del padre, immaginai una analisi impersonale; qualcosa di impossibile. Essere padre è meraviglia, riconoscenza, accettazione, impegno personale, amore nei confronti di chi è diverso da noi.

Il senso di colpa, magari mio soltanto, dell’essere stato cagione della venuta al mondo di un figlio che ho desiderato, invocato, trova il proprio riscatto nel donare a questo mondo imperfetto una coscienza rinnovata, forte, consapevole. Uno spirito sapiente.

Un padre è chi è custode alla magnificenza.

F.D.

Stili educativi

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La maggior parte di noi, non è nemmeno a conoscenza del fatto che ci sono diversi tipi di educazione, semplicemente si educano i bambini nel miglior modo possibile riproponendo ciò che si è appreso in base ad esperienze personali . Oggi cercheremo di chiarire qualche concetto. La consapevolezza è sempre la strada del successo, sopratutto quando parliamo di educazione.
L’essere genitore comporta il doversi improvvisare, talvolta, teorici dello sviluppo infantile, interrogandosi sui perché bisognerebbe agire in un determinato modo piuttosto che in un altro.

Una parte assopita in noi, considerata ancestrale svolge una parte in questa scelta d’azione risvegliando memorie mai prima di adesso ricordate e ricordi, per l’appunto, più nitidi, stimolati dalla presenza di un bambino che richiede sola autenticità.Quando ci imbattiamo nello spigoloso mondo dell’educazione, dobbiamo porci in una condizione di accettazione e conoscenza della persona che siamo prima di poter dare all’altro; ed allora, da quali modelli o stili educativi bisogna che partiamo? Ma soprattutto, cosa abbiamo appreso, noi, per poter in questo momento offrire un equilibrio educativo ai nostri bambini?


Sarà poi quello giusto per loro?
Quando si è stati bambini noi, le figure di riferimento alle quali ci affidammo, allevarono la nostra figura secondo loro personalissimi stili e soggettivi concetti educativi che, successivamente appresi e fatti nostri, conseguentemente riproponiamo.Analizziamo assieme quali sono gli stili educativi, provando a riconoscerci ed a comprendere .
Cominciamo con lo spiegare che per “stile genitoriale” è intesa quella modalità educativa e accudente grazie alla quale gli individui svolgono le “funzioni genitoriali”, ovvero le funzioni affettive, protettive, regolative e di empatia nei confronti dei propri figli.

Lo “stile genitoriale” orienta la relazione; influenza lo sviluppo.

Lo “stile genitoriale” può Intersecarsi in diverse dimensioni che contemplano il medesimo controllo, legato all’affettività ed alla comunicabilità.

Grazie all’efficacia di uno stile comunicativo equilibrato, è possibile ottenere un sano connubio giusto tra accettazione (cioè?) e controllo.

Costante accettazione, permissivismo e scarso controllo, determina nel bambino, una forma di onnipotenza e scarsa predisposizione ad accettare qualsiasi negazione espressa nei “no”, incorrendo inevitabilmente in frustrazioni che avranno eco in età adulta.

Di contro, una totale negazione ha conseguenze altrettanto evidenti ma nel senso opposto.

I “no”, ripetuti e costanti, sono la base della scarsa autostima, di sensazioni di infelicità ed incapacità nel provare gioia spontanea.

Dunque, come correttamente si afferma, è nell’equilibrio che risiede il bene.
Per poter meglio comprendere gli “stili genitoriali”, ci riferiremo ai modelli più noti che li descrivono; proposti da Diana Baumrind negli anni ’70, questi delineano quattro principali stili:

-Autoritario

-Permissivo

-Trascurante/Rifiutante

-Autorevole

Lo stile autoritario.

Il controllo e la scarsa accettazione del bambino.

Il genitore pretende dal bambino l’obbedienza. Le regole sono assolute e non prevedono spiegazione alcuna. Si è inflessibili e distaccati di modo da poter esercitare una forma di controllo assoluto. Si utilizzano intimidazioni e punizioni, raramente lodi ed apprezzamenti. Non si accetta il figlio per quello che è; pertanto si tenta di plasmarlo a seconda di un proprio ideale.

Un bambino che subisce uno stile autoritario potrebbe, ma solitamente ha, un comportamento estremamente ubbidiente e diligente, ma poco affettuoso e spontaneo.

Nel mio lavoro lì definiamo i bambini invisibili. Sono quelli che non disturbano mai, quelli per i quali i genitori si vantano.
Lo stile permissivo è caratterizzato da un’elevata accettazione del bambino e da uno scarso controllo.

Il genitore che adotta questo stile è centrato sul bambino. È affettuoso e lo accetta per ciò che è, ovvero un bambino. Non lo guida nelle decisioni e non si sente responsabile di correggerle. Non è severo e non pretende nulla dal figlio, offrendo poche regole se non nessuna. Non ha confronto con il bambino sulle decisioni da prendere e soddisfa ogni suo desiderio anche se privo di senso.

Molti si chiederanno, perché no? Riflettendo sul fatto che ogni bambino necessita di figure adulte e coerenti che lo accompagnino nelle scelte, anche quelle più banali o che paiano tali, lo stesso bambino non risolverebbe in nessuna decisione posta tra mille varianti di scelta con nessuna regola ferma, manifestando comportamenti aggressivi che verranno letti dall’adulto come capricci. Una fermezza contenitiva non sarà qui di intesa come durezza quanto come capacità di discernimento tra poche semplici variabili.

Lo stile caratterizzato da una scarsa accettazione ed uno scarso controllo, viene definito trascurante/rifiutante. 
Questo stile denota un totale disimpegno.

Nella relazione educativa vengono offerti pochi strumenti di comprensione, poche regole. Non è tenuto conto delle opinioni e dei sentimenti del bambino.

Il bambino è lasciato solo con sé stesso, non soltanto in quella che è definita sfera fisica o di contatto, ma sopratutto dal punto di vista mentale.

Un bambino è un individuo al quale pensare e sul quale agire.
L’equilibrio tra accettazione (cioè?) e controllo, definiscono infine lo stile autorevole.

L’adulto autorevole ha piena consapevolezza delle regole da dover offrire al bambino, rispetta il suo pensiero, sollecita e offre lo scambio, interagisce chiedendo non di essere intellettualmente adulto ma di essere sé stesso, nel rispetto dell’età e delle competenze a questa legate.

È un genitore autentico che mostra ciò che prova e pensa. L’accettazione incondizionata non è sinonimo di “Tutti i comportamenti vanno bene”, piuttosto il porsi in ascolto attivo ed empatico quale prerogativa a questo stile, non cercando di sostituirsi al bambino né di renderlo come lui.

Questo modo d’agire educativo pone l’accento sui quei limiti da imporre e che molto spesso rappresentano il tasto dolente per questi adulti .

I limiti, che possono rappresentare delle restrizioni, mandando il bambino su tutte le furie, sono dei “cancelli” necessari che lo proteggono, entro i quali il bambino può muoversi e sentirsi sicuro. Spesso gli adulti non pongono queste regole con coerenza, né rendendole accettabili per non incorrere in frustrazioni personali e sofferenze.

È molto importante che i bambini abbiano una visione realistica di quello che possono o non possono fare, di ciò che riescono o non riescono a fare.

La frustrazione in loro stimola la capacità del fare ad uso delle proprie risorse, attivando mentalmente la spinta alla soluzione attraverso pensieri alternativi. Tutto ciò avviene, purché il “no” dettato sia ragionevole.

La capacità dell’adulto di dire “no”, insegna al bambino il coraggio di “dire di no” a sua vola, generando la capacità di auto protezione.

Le regole andranno dunque espresse in modo positivo, preferendo il “puoi”, “non puoi”, al “si” ed al “no”.
La conoscenza degli stili genitoriali permette di avere consapevolezza sulle modalità educative che si tende a privilegiare, nonché sugli effetti che da questa consapevolezza possono generare.

Sarebbe sempre opportuno avere l’accortezza di contestualizzare ogni stile in base all’ambiente, all’età del bambino e sopratutto alla risposta di questi.