Quando scegli di confrontarti in argomenti delicati, primari come la maternità, la genitorialità e i bambini, è necessario porre molte attenzione alla scelta e all’uso delle parole, al loro significato e alla loro etimologia. Il rischio, nel non porre in attenzione la qualità del nostro dire, è creare confusione, generalità, spazio per opposti schieramenti, faziosità o inutili polveroni. Ecco che è allora utile un’attenta riflessione in merito.

Parlare di maternità richiede innanzitutto definirne il termine, per averne maggiore chiarezza.
Winnicott definisce la maternità quale “preoccupazione materna primaria” che nasce dal rapporto empatico che una madre ha con il proprio figlio. Ma perché tale fiducia si stabilizzi, continua Winnicott, è necessario che la madre sia capace di una disponibilità autentica, rinunciando a volersi realizzare come madre perfetta, accettando invece di essere una madre “sufficientemente buona“.
Diventare madri non è un’esperienza semplice, dover gestire quotidianamente un bambino richiede energie, sia fisiche che psichiche, soprattutto quando la società pretende che tu sia una madre buona e perfetta.
Accade quindi che per riuscire a realizzare tale perfezione un genitore, ma soprattutto una madre, a cui viene richiesto un impegno e una disponibilità costante, inizi a leggere, informarsi, ricercando tesi e teorie che riescano a supportare tale idea di compiutezza.
Le teorie pedagogiche sono cambiate nel tempo attraverso l’osservazione e gli studi, e spesso a discapito degli stessi bambini, talvolta anche degli adulti, che hanno subito retaggi di pratiche poco in linea alla crescita armoniosa di un bambino, spacciate come etiche, impedendo di vedere i bambini come persone; o goduto di visioni e lungimiranti saggezze.
Ricordiamo quasi tutti la frase “i bambini vanno raddrizzati finché si è in tempo”: era idea e pratica comune imporre un rigore educativo assimilabile a un fusto vegetale da dover far crescere in altezza ma costretto in una severità al pari di un legaccio per tronchi. Eppure, quanti pedagogisti del nostro ‘900 sono stati ascoltati e le loro pratiche eseguite, anche se avventate o errate? Tanti da esser troppi.
Ancora oggi, nonostante il passare degli anni, molti manualetti di grande successo sono ancora consigliati. Per volerne citare solo alcuni, senza spingerci nel campo dell’editoria che pure comprende manuali sul come insegnare a partorire, dirò dello spietato Estivill, medico catalano che insegnava ai genitori come far dormire un bambino con il suo libro “Fate la nanna”, a Trasy Hogg, puericultrice inglese che scrive “Il linguaggio segreto dei neonati”.
Genitori rimproverati di accorrere troppo velocemente ai bisogni dei bambini, madri sminuite per non essere capaci di partorire senza lamentarsi.
Vorrei soffermarmi nello specifico proprio sul libro di Trasy Hogg, perché io stessa ne ho fatto esperienza. Nel suo volumetto, apparentemente lineare, alterna momenti di riconoscimento dei bisogni del bambino a momenti in cui la richiesta, espressa col pianto, sarebbe da ignorare, rimandare o soprassedere da parte del genitore. Questo temporeggiare, trova risposta educativa nella capacità, spartana per il bambino, di potersi autoregolare e divenire indipendente.
“Quando il vostro piccolo piange, l’istinto naturale sarebbe quello di correre da lui. Probabilmente pensate che sia in difficoltà o, peggio, che il pianto sia una cosa negativa. In realtà è importante imparare a dominare queste emozioni, fermandosi un momento a riflettere.
Ma dopo che ho riflettuto, chiederei oggi a Hogg, aspetto che il bambino o la bambina mi facciano capire se il loro pianto racconti del freddo o della fame, di un dolore o di una difficoltà, dunque intervengo? Oppure, in mancanza di una risposta che non giunge da una riflessione, trascuro l’evento, il pianto, la richiesta?
A volte, involontariamente, si nega l’amore favorendo nei figli quel distacco emotivo, credendolo utile e necessario, soprattutto quando un bambino è molto piccolo. Quanto più piccolo è il bambino tanto più necessita di un adulto per poter sopravvivere. “I bisogni dei bambini sono intensi, urgenti e “inrinunciabili” afferma Antonella Sagone nel suo libro La Rivoluzione della tenerezza.
Riuscire a sintonizzarsi sui bisogni dei bambini richiede un lungo e profondo lavoro personale, l’essere capaci di ascoltarsi, scardinando ciò che è stato, svincolandosi da chi ha orbitato nella nostra vita e non sia riuscito a sintonizzarsi sui nostri bisogni. Da come decideremo di percorrere la strada si determinerà la capacità di ostacolare o imparare ad esprimere un nostro bisogno, senza incolpare chi ci sta accanto di ciò che noi in realtà non siamo stati capaci di esprimere, riuscendo anche nella capacità di suddividere il carico familiare, reso per questo meno oneroso.

Sono piuttosto i mondi che ci hanno abitato a dover essere riveduti e corretti, quelli che ci hanno offerto l’esempio, l’idea di comunità, il villaggio che ci ha sostenuti, che ha reso la congiunzione tra il nostro mondo di oggi e quello dei bambini che siamo stati. E c’è poi una vocina che arriva da lontano anch’essa, che ha oggi determinato il cambiamento, l’autorizzazione a dissentire dinnanzi a un atteggiamento. Oggi questa capacità di analisi del vissuto ha offerto ad alcuni genitori la possibile differenza nel crescere un figlio, resistendo alle vecchie pratiche, la consapevolezza, l’idea che qualcosa andava cambiato e che, se il sentire di adulti strideva con l’educazione ricevuta, dunque qualcosa davvero andava rivisto.
Una breve riflessione ancora su quanto detto, ovvero sull’importanza delle parole, sulla successione temporale delle dottrine educative, sul nostro trascorso personale l’ho ritrovata in un testo differente dai canonici testi di divulgazione pedagogica; o forse è proprio grazie a questo, a un suo breve passaggio che nasce l’articolo.
Sto parlando de “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio, edito da Einaudi, e il passaggio è il seguente:
“Adriana teneva il bambino in braccio, già si stava calmando. Lo cullava con movimenti leggeri, il viso ancora rosso e sconvolto, ciocche di capelli appiccicati alla fronte dal sudore. – Come ti sei permessa di toccare mio figlio? – ha detto il padre alzandosi di colpo. La sedia si è rovesciata dietro di lui. Ansimava, una vene in rilievo gli pulsava sul collo. Adriana non lo ha neppure considerato. Ha restituito con delicatezza il bambino a sua madre. – Gli si era incastrata la mano tre le sponde del letto, – ….” “…- Sei stata grande, – le ho detto. – Qualcuno doveva andarci da quella creatura. Non ci hanno pensato che strillava per il dolore? …”.