I Bambini al centro dell’agire educativo

Per giungere a ciò che aspirava Maria Montessori, bisognava che il bambino operasse con le sue “deboli forze e con i suoi mezzi limitati”. (Montessori 1907).

Maria Montessori può essere considerata una grande rinnovatrice dell’educazione infantile partendo da quel concetto caro a Fröbel, che il bambino è un essere attivo, stimolato da forze interne, e lo scopo dell’educazione è di permettere il libero sviluppo di tali forze. Il pensiero della centralità del bambino fa sì che si discosti da tutti i metodi usati fino ad allora nella scuola italiana, ma non solo. La possibilità di osservare il mondo dell’educazione da punti differenti, le offrirono la convinzione che l’educazione dovesse agire a prescindere dalla provenienza geografica, perché ciò che accomunava tutti i bambini erano lo sviluppo cognitivo e le loro rispettive caratteristiche individuali.

Nasce così un nuovo modo di pensare l’educazione dei bambini e delle bambine; questi, se inseriti in un ambiente scientificamente predisposto, contenente stimoli adeguati al loro sviluppo, sono in grado di tirar fuori tutto il potenziale nascosto, fino al paradosso che in  un certo senso il bambino conosce meglio dell’adulto la via dello sviluppo.

La vita di ciascun essere umano è caratterizzata da importanti periodi di sviluppo. La centralità del bambino in educazione spinge Maria Montessori ad immaginare che  sin dalla nascita  del bambino stesso, come afferma nei suoi scritti, non è un essere vuoto, che deve a noi tutto ciò che sa e di cui l’abbiamo riempito. L’adulto si è sempre preso il merito dello sviluppo del bambino, senza pensare invece che il bambino ha grandi potenzialità dentro di sé, e per questo va rispettato. 

La Dott.ssa Montessori definisce questa centralità: “Educazione per un mondo nuovo”. Ogni bambino ha la sua individualità, tempi, e va riconosciuto per lo sviluppo del proprio sé, altrimenti l’apparenza si sostituisce all’essere. Se si vuole essere dei buoni educatori il primo lavoro è da fare su se stessi, cura di sé per poter aver cura dell’altro.

Montessori pensa ad un’educazione che sia in grado di rispettare e riferirsi a quello che in realtà la vita è in sé, ovvero energia cosmica nell’atto della creazione. Tutto l’universo è impegnato in un movimento continuo come se fosse una danza senza fine. In tutto questo movimento ad un certo punto arriva l’uomo che va considerato come il frutto di un lungo lavoro evolutivo. L’uomo fa parte di tutti i tasselli dell’universo e deve prendere coscienza del proprio posto, non può limitarsi ad osservare ma è chiamato a partecipare al mondo. Per Maria Montessori l’educazione è partecipare al mondo. La conoscenza è un co-nascere, nascere e continuo rinascere, rinnovarsi. Il nostro compito è cercare di penetrare i segreti dello sviluppo umano riconoscendo che fra le diverse stagioni della vita c’è un collegamento che va rispettato e protetto. Lo sviluppo umano prevede delle fasi caratterizzate da continuità e altre caratterizzate da discontinuità che si mobilitano alla ricerca di un equilibrio. E dunque  lo sviluppo dell’uomo non è mai lineare o senza dolore: ogni stagione vitale è un ciclo che si apre e si chiude con delle particolarità proprie.

Quale, in sostanza, l’innovazione portata da Montessori in campo educativo? Il suo metodo si basa fondamentalmente su due principi fondamentali: la centralità del bambino stesso nell’apprendimento, come già evidenziato, e il concetto di libertà. La “libertà favorisce la creatività del bambino che è già presente nella sua natura. Dalla libertà deve poi emergere la disciplina”.

Il bambino è accompagnato alle bellezze del mondo, senza che questi venga plasmato dall’adulto. Quando ci troviamo dinnanzi ad un bambino, è frequente volerlo indirizzare a seguire un percorso legato ai nostri bisogni, più che considerarlo come un’individualità separata da noi in tutto e per tutto. Quello che bisognerebbe ricordare come maestri sarebbe di porsi con una postura educativa rispettosa delle esigenze di ogni singolo bambino, volta alla scoperta delle sue potenzialità e della sua individualità. 

“La sedia della riflessione” aiuta davvero a riflettere?

Certo, la sedia è comoda, come pure lo è il retro della lavagna

Zero complicazioni e mio scarso impegno.

Affido, a te bambino, al tuo personalissimo senso di colpa, la parte che spiega come comportarsi, intanto che io mi dedicherò ad altro compito.

Proviamo invece a nominarla per come dovrebbe essere: La sedia del pensare è una forma di punizione, edulcorata nel termine.

Dire ad un bambino in quell’età compresa tra la fascia nido e scuola dell’infanzia, di sedersi a riflettere, è totalmente inutile.

È inutile anche successivamente, ma nella mente di un bambino di otto anni le emozioni assumono un significato più chiaro.

I bambini hanno bisogno di un adulto che li accompagni, che elabori con loro quanto accaduto.

Un bambino lasciato solo, o davanti ai propri compagni, o ancora in un angolino, è dannoso; la dignità del bambino fortemente a repentaglio.

E’ un strumento di umiliazione vero e proprio.

“Io sono l’adulto e sono più forte di te” è il messaggio che inviamo.

Ma cosa fa pensare a molti genitori/ educatori/ maestri, che possa essere uno strumento utile? La risposta è nella parola “riflessione”.

I bambini necessitano di essere aiutati a sviluppare una sufficiente capacità di regolazione delle proprie emozioni, isolarli non è il sistema per aiutarli nei momenti difficili.

I bambini necessitano di un adulto che fornisca contenimento, rassicurazione, rispecchiamento emotivo.

Quando vengono lasciati soli, essi restano privi di quella regolazione di cui hanno bisogno, sia per calmarsi sia per imparare, nel tempo, l’autoregolazione.

Questa mancanza produce maggiore insicurezza ed aumento del livello di frustrazione.

Il bambino a quattro anni non sa cosa significhi anche solo la parola riflessione.

Cosa avrà imparato, dunque? Nulla, se non che riflettere è brutto e umiliante.

Dietro alcuni comportamenti difficili di alcuni bambini si nascondono momenti di fatica. Il loro comportamento ci parla forse di un disagio o di uno stato d’euforia.

Non esistono comportamenti cattivi. Non esiste nessun comportamento problema, ma i cattivi comportamenti sono messaggi, espressioni di quella fatica o dell’incontrollato dinamismo.

Magari agiscono nell’unico modo in cui sanno che riceveranno attenzioni, anche se sono attenzioni diverse dall’accoglimento, come sgridate o punizioni.

La strada migliore è condividere, stare accanto al bambino, insomma esserci.

Non nascondiamoci dietro all’idea delle classi numerose, perché un ambiente ben organizzato ti permette di spostarti per poter aiutare il singolo bambino in un momento di grande difficoltà.

Richiede più energie, un buon lavoro di squadra, ma non è impossibile.

E quando parlo di squadra, penso ai genitori che in educazione dovrebbe viaggiare sullo stesso binario, percorrendo il medesimo obiettivo.

@lacicognanonmihadetto @uncafféconsara

Le carezze si sentono

La prima volta che ho ascoltato con il cuore la parola attaccamento è stato durante il master.

In realtà, più che ascoltarla, l’avevo proprio sentita con tutto il corpo, si propagava ovunque.

Ogni mia cellula sobbalzava durante quell’esperienza, non ne capivo il motivo, poi però compresi:

Iniziava il mio percorso di crescita interiore. Quando, in realtà, si era costruito quel “noi”, quel legame che da adulti ci portiamo dietro come impressione?

Il contatto, le connessioni, iniziano proprio lì.

Le neuroscienze ci dicono che l’attaccamento comincia nel ventre materno. Pazzesco!

Le carezze si sentono” dice la Dott.ssa Daniela Lucangeli.

È proprio attraverso quel sentire che il cucciolo umano comprende il legame ancor prima di sperimentarlo.

Nulla si aspetta, non sa che presto incontrerà qualcuno di speciale.

Nulla è paragonabile a quell’unione. Possiamo sforzarci di immaginarla; sarà improbabile trovare un paragone che regga.

In parte, il collante di quella unione è l’ossitocina.

L’ormone dell’amore viene definito, quello che permette alla donna di sopportare i dolori del parto( più o meno), non li ameremo meno se questo non è avvenuto.

Gli studi ci dicono che l’ossitocina raggiunge livelli apicali nelle ore successive al parto. Ogni volta che abbracciamo il nostro bambino l’ormone fa scintille, schizza alle stelle.

Quel modo di stare in connessione non è solo prerogativa della madre ma anche dei papà che intessono e sorreggono, costruiscono e rinforzano quell’unione che se adeguatamente coltivata, durerà molto a lungo.

“Ero goloso di conoscenza e novità e consapevole che ogni cosa uguale o diversa era allora nutrimento. Poi di uno seppi farne a meno, di quel bacio che molti mesi dopo mi disse era la vita!”

La gentilezza è l’arma dei più forti (Stephen Littleword)

Il 13 Novembre è la giornata mondiale della gentilezza. Introdotta nel 1998 dal World Kindness Movement, è osservata in molti paesi, tra cui Canada, Giappone, Australia, Nigeria e Emirati Arabi Uniti.
Nella giornata mondiale della gentilezza si invita il mondo a mettere in evidenza le buone azioni nella comunità, concentrandosi sul potere positivo della gentilezza che lega gli uomini.

A partire dal 1998 si è diffusa in tutto il mondo. La bellezza dei piccoli gesti, la pazienza, la cura, l’ascolto dei bisogni degli altri senza perdere mai di vista i propri.

Di seguito alcuni libri sul tema

È facile essere gentili. È sufficiente dire grazie, regalare un sorriso, tendere la mano, condividere… Questo dolcissimo libro insegna che, se siamo gentili con gli altri, gli altri lo saranno a loro volta con noi. Etá di lettura 3 anni

Esistono delle parole che hanno il potere di far spuntare il sorriso. Sono parole magiche e sono talmente semplici che anche i più piccoli le possono imparare. Sono: buongiorno, per piacere, grazie, bravo, benvenuto, scusa, ti voglio bene, ti aiuto io. Sono le parole della gentilezza. Età di lettura: da 3 anni.

Un volume pensato per sensibilizzare i più giovani su importanti tematiche sociali, con un titolo che affronta in particolare il problema dell’egoismo, nelle sue molteplici forme e con le sue spesso terribili conseguenze. I ragazzi troveranno tra queste pagine 10 idee per correggere e migliorare i propri comportamenti in nome della gentilezza, per essere più aperti, inclusivi e rispettosi verso gli altri. A casa, a scuola, per strada… Per rendere il mondo un posto migliore, giorno dopo giorno. Età di lettura: da 7 anni.

La gentilezza custodisce il segreto per instaurare relazioni solide, autentiche, di fiducia, che ci aiutano a conseguire i risultati desiderati in tutti gli ambiti della nostra esistenza privata e sociale. Non ha niente a che vedere con la manipolazione né con l’essere ben educati o manierosi. La gentilezza è un bene complesso e potentissimo, che appartiene a ciascuno di noi, ma che va riscoperto e praticato quotidianamente, perché porti i suoi frutti migliori.

La morte spiegata ai bambini. Le parole, l’autenticità dei gesti

Una delle tematiche più difficili che mi trovavo a dover affrontare nel mio ruolo di educatrice, riguardava l’idea legata alla morte, spiegata ai bambini.

Poi un giorno, quando divenni madre, formulai nella mia mente questa stessa idea, questa difficoltà, ma da un ulteriore punto di vista.

Quando è nato mio figlio ho creduto che non avrei vissuto abbastanza per gioire.

Parlare della morte resta ancora per molti un tabù.

Ricordo ancora quella stanza dedicata, con le sue luci soffuse e le sue grandi ombre. Sentivo le voci di chi mi attorniava, concitate come in una scatola avvolta in uno strato spesso di plastica antiurto; io mi affacciavo a vivere una nuova vita, eppure la domanda che mi risuona con quel briciolo di lucidità che mi restava era, “come glielo avrebbero spiegato che di lì a poco…?”.

Sono qui a scrivervi sul come possiamo raccontarlo ai bambini, perché non si è mai veramente pronti per farlo.

L’emozione che tutti noi proviamo pensando alla morte é senza ombra di dubbio la tristezza, e in questa tristezza, in questo stato di delusione che dunque dobbiamo trovare il modo per raccontarla.

Come affrontarla con i bambini, garantendo e proteggendo e rispettando il dolore?

Non si può fingere di essere felici, le emozioni vanno vissute per ciò che sono, attraversate e processate; ognuno di noi troverà poi il proprio modo personale,la propria maniera autentica di vivere il dolore.

Un bambino si trova a volte ad affrontare questo tema sin da piccolo, con la morte di un animale o con la perdita di un persona vicina, o a volte leggendo una storia. C’è dunque un prima e un dopo.

Il mondo dell’editoria offre spunti interessanti. Molti sono gli albi che la raccontano in modo chiaro, basta volerne parlare e condividere, e proprio attraverso un libro cerchiamo il più delle volte risposte che possano alleggerirci.

L’isola del nonno

Con tutta onestà, ammetto che non esistono delle risposte assolute, giuste o sbagliate: dobbiamo accettare che non esistono proprio risposte.

Vivo come adulto il tema dell’impotenza di non aver risposte a tutte le domande; questo è un sentimento che va accolto perché un abbraccio silenzioso può incantare, raccontare più di un detto. Le parole giungeranno a tempo debito.

Ci viene naturale porci domande sul come affrontare i molti quesiti che riguardano il tema, i comportamenti che emergono, le bizzarrie. Come accompagnarli dunque in questa esperienza dirompente?

Le modalità che scegliamo di adottare differiscono in base all’età dei bambini.

Fondamentale è sapere che un bambino al di sotto dei tre anni difficilmente chiederà spontaneamente della morte, e più che le parole, sono le nostre emozioni e i nostri comportamenti che genereranno domande e daranno risposte.

I bambini non ri-conoscono la morte, ma l’assenza.

Diversa è invece la prospettiva dei bambini dai tre ai sei anni.

In essi l’idea della morte è percepita, ma sarà difficile capire che una persona morta non tornerà più. In questo la loro spontaneità è disarmante, quasi fuori luogo: “quando il nonno tornerà giocherà con me” come se dovesse tornasse da una lunga vacanza.

Complice di questo comportamento è il fatto che ci troviamo in una fase di pieno egocentrismo, dove è lui al centro del tutto, senza riuscire a percepire la differenza tra la propria visuale e quella degli altri.

Pian piano che crescerà i pensieri saranno processati diversamente essendo più agganciati alla realtà, percependo la vita, e dunque la morte, in modo differente.

Dunque tra i sei e dieci anni anni si comprenderà l’irreversibilità della morte, anche se resta il concetto del “sempre” che è difficile da afferrare. Possono nascere sentimenti contrastanti legati anche alla dimensione del corpo, della sofferenza, della malattia, di qualcosa che non funziona più.

In questa fase è importante renderli partecipi dei rituali legati alla morte. Spieghiamo loro, attraverso delle metafore, cosa accadrà o cosa è accaduto, e attendiamoci che la consapevolezza, divenuta anche paura, divenga concreta e spesso estesa a tutti.

Potrebbero emergere domande forti, chiare, dirette, che andranno per questo accolte tutte e mai negate, anche se per noi difficili da chiarire in momenti in cui il nostro unico e medesimo desiderio sarebbe eclissarsi dal mondo.

Anche in occasioni così dolorose noi adulti rappresentiamo il tramite tra la mente e il suo cuore. Attraverso la nostra presenza, il bambino troverà il proprio modo di processare il dolore.

Più passeranno gli anni e più i bambini avranno consapevolezza che quello che vive può anche morire.

In fase preadolescenziale, o comunque dopo il decimo, dodicesimo anno, non si è abbastanza grandi per affrontare il dolore, tanto meno piccoli per correre a piangere tra le braccia di un adulto già provato dal dolore. Il rischio potrebbe essere l’isolamento, l’auto comprensione che crea un muro inevitabile tra sé e il dolore, nascondendo in questo modo le emozioni più autentiche, quelle più difficili da raccontare se non si è allenati a farlo.

Se sei arrivato sin qui hai attraversato momenti difficili e ancora cerchi risposte. Come abbiamo detto inizialmente, non esistono ricette magiche ma solo accorgimenti importanti. Le parole, l’autenticità dei gesti, la chiarezza e il rispetto dei tempi per un argomento non sempre facile da affrontare con nostro figlio.

Aspettiamo che siano loro, i bambini, a fare domande. Se proprio non esiste un imminente bisogno, inutile forzare la mano.

Affrontare una tematica così delicata, implica inevitabilmente parlare della vita, di legami, di lutti; implica mettere a nudo racconti profondi che decidiamo a questo punto di condividere nella loro interezza.

Aver valore della vita è un atto di responsabilità. Compito di noi adulti è aiutare i bambini a divenirne consapevoli in ogni sua forma.

Dotare i bambini di strumenti per vivere il dolore, rendendoli consapevoli di come possano essere affrontati, processati e superati è un compito arduo ma necessario.

Un incontro speciale. Vale sempre la pena mettersi in ascolto

Da quando siamo qui in vacanza dalla nonna, frequentiamo un parco comunale che abbiamo imparato a conoscere in ogni suo dettaglio: foglie, alberi di pino marittimo, cespugli di fiori colorati e sì, anche i giochi (ma questa è la parte che meno ci attrae).

Oggi, sempre al parco, abbiamo incontrato Claudio, un bimbo che ho sentito subito essere nelle mie corde.

Strano trovare un bimbo al parco in quelle primissime ore; è mattino e le scuole ormai sono tutte iniziate, i parchi silenziosi, come sanno esserlo solo d’autunno perché tutti si è in classe.

Claudi no; oggi della scuola non ne ha voluto saperne, o almeno così mi racconta suo padre. Ha preferito giocare all’aperto con un pallone da calcio che ha poi volentieri condiviso con noi.

Condivisione

Mi ha detto che non gli andava di andare a scuola perché la maestra in classe urla con i suoi compagni, e quando lei urla, lui si spaventa.

Sono rimasta silenziosa ad ascoltarlo.

Vale sempre la pena ascoltare i bambini e le emozioni che ci raccontano, perché ci dicono qualcosa che forse non riusciamo a vedere con gli occhi.

Ci sono bambini che non riescono ad esprimere pienamente ciò che in quel momento li turba, sopratutto se non sono stati abituati a farlo. Sono quei bambini che spesso vengono definiti timidi, introversi, quelli che Elaine Aron definisce “bambini altamente sensibili”.

Chi sono i bambini altamente sensibili?

L’alta sensibilità è un tratto temperamentale innato a base genetica, piuttosto diffuso, sia tra gli umani che in altre specie animali.

Le persone ( in generale)altamente sensibili hanno una soglia percettiva inferiore rispetto agli stimoli sensoriali, emotivi e sociali, per questo riescono a percepire e sentire in maniera più veloce e intensa ciò che arriva dall’ambiente.

I bambini che possiedono questi tratti hanno bisogno di adulti che riescano a sintonizzarsi con i loro bisogni, capaci di comprendere la loro caratteristica, di rassicurarli e di filtrare gli stimoli ambientali affinché non diventino caotici per i bambini stessi. Significa avere attenzione per suoni, luci, odori, sapori, tocchi.

Un ambiente caotico, con luci troppo intense, rumori forti, tensioni emotive, può creare molta difficoltà ad un bambino sensibile, destabilizzandolo.

E’ importante che gli adulti (genitori, e coloro che lavorano con i bambini) diventino consapevoli di queste caratteristiche per potersi attivare nel ricercare modalità e strategie in grado di rassicurare, contenere, supportare questi bambini nel loro percorso di crescita.

Forse, se la maestra di Claudio ne fosse stata consapevole, il suo piccolo alunno sarebbe stato lì in classe con lei quella mattina d’autunno.

Parco “Salvo D’Acquisto”

Chiamali se vuoi manualetti

Quando scegli di confrontarti in argomenti delicati, primari come la maternità, la genitorialità e i bambini, è necessario porre molte attenzione alla scelta e all’uso delle parole, al loro significato e alla loro etimologia. Il rischio, nel non porre in attenzione la qualità del nostro dire, è creare confusione, generalità, spazio per opposti schieramenti, faziosità o inutili polveroni. Ecco che è allora utile un’attenta riflessione in merito.

Maternità

Parlare di maternità richiede innanzitutto definirne il termine, per averne maggiore chiarezza.

Winnicott definisce la maternità quale “preoccupazione materna primaria” che nasce dal rapporto empatico che una madre ha con il proprio figlio. Ma perché tale fiducia si stabilizzi, continua Winnicott, è necessario che la madre sia capace di una disponibilità autentica, rinunciando a volersi realizzare come madre perfetta, accettando invece di essere una madre “sufficientemente buona“.

Diventare madri non è un’esperienza semplice, dover gestire quotidianamente un bambino richiede energie, sia fisiche che psichiche, soprattutto quando la società pretende che tu sia una madre buona e perfetta.

Accade quindi che per riuscire a realizzare tale perfezione un genitore, ma soprattutto una madre, a cui viene richiesto un impegno e una disponibilità costante, inizi a leggere, informarsi, ricercando tesi e teorie che riescano a supportare tale idea di compiutezza.

Le teorie pedagogiche sono cambiate nel tempo attraverso l’osservazione e gli studi, e spesso a discapito degli stessi bambini, talvolta anche degli adulti, che hanno subito retaggi di pratiche poco in linea alla crescita armoniosa di un bambino, spacciate come etiche, impedendo di vedere i bambini come persone; o goduto di visioni e lungimiranti saggezze.

Ricordiamo quasi tutti la frase “i bambini vanno raddrizzati finché si è in tempo”: era idea e pratica comune imporre un rigore educativo assimilabile a un fusto vegetale da dover far crescere in altezza ma costretto in una severità al pari di un legaccio per tronchi. Eppure, quanti pedagogisti del nostro ‘900 sono stati ascoltati e le loro pratiche eseguite, anche se avventate o errate? Tanti da esser troppi.

Ancora oggi, nonostante il passare degli anni, molti manualetti di grande successo sono ancora consigliati. Per volerne citare solo alcuni, senza spingerci nel campo dell’editoria che pure comprende manuali sul come insegnare a partorire, dirò dello spietato Estivill, medico catalano che insegnava ai genitori come far dormire un bambino con il suo libro “Fate la nanna”, a Trasy Hogg, puericultrice inglese che scrive “Il linguaggio segreto dei neonati”.

Genitori rimproverati di accorrere troppo velocemente ai bisogni dei bambini, madri sminuite per non essere capaci di partorire senza lamentarsi.

Vorrei soffermarmi nello specifico proprio sul libro di Trasy Hogg, perché io stessa ne ho fatto esperienza. Nel suo volumetto, apparentemente lineare, alterna momenti di riconoscimento dei bisogni del bambino a momenti in cui la richiesta, espressa col pianto, sarebbe da ignorare, rimandare o soprassedere da parte del genitore. Questo temporeggiare, trova risposta educativa nella capacità, spartana per il bambino, di potersi autoregolare e divenire indipendente.

“Quando il vostro piccolo piange, l’istinto naturale sarebbe quello di correre da lui. Probabilmente pensate che sia in difficoltà o, peggio, che il pianto sia una cosa negativa. In realtà è importante imparare a dominare queste emozioni, fermandosi un momento a riflettere.

Ma dopo che ho riflettuto, chiederei oggi a Hogg, aspetto che il bambino o la bambina mi facciano capire se il loro pianto racconti del freddo o della fame, di un dolore o di una difficoltà, dunque intervengo? Oppure, in mancanza di una risposta che non giunge da una riflessione, trascuro l’evento, il pianto, la richiesta?

A volte, involontariamente, si nega l’amore favorendo nei figli quel distacco emotivo, credendolo utile e necessario, soprattutto quando un bambino è molto piccolo. Quanto più piccolo è il bambino tanto più necessita di un adulto per poter sopravvivere. “I bisogni dei bambini sono intensi, urgenti e “inrinunciabili” afferma Antonella Sagone nel suo libro La Rivoluzione della tenerezza.

Riuscire a sintonizzarsi sui bisogni dei bambini richiede un lungo e profondo lavoro personale, l’essere capaci di ascoltarsi, scardinando ciò che è stato, svincolandosi da chi ha orbitato nella nostra vita e non sia riuscito a sintonizzarsi sui nostri bisogni. Da come decideremo di percorrere la strada si determinerà la capacità di ostacolare o imparare ad esprimere un nostro bisogno, senza incolpare chi ci sta accanto di ciò che noi in realtà non siamo stati capaci di esprimere, riuscendo anche nella capacità di suddividere il carico familiare, reso per questo meno oneroso.

Il carico familiare va suddiviso sempre

Sono piuttosto i mondi che ci hanno abitato a dover essere riveduti e corretti, quelli che ci hanno offerto l’esempio, l’idea di comunità, il villaggio che ci ha sostenuti, che ha reso la congiunzione tra il nostro mondo di oggi e quello dei bambini che siamo stati. E c’è poi una vocina che arriva da lontano anch’essa, che ha oggi determinato il cambiamento, l’autorizzazione a dissentire dinnanzi a un atteggiamento. Oggi questa capacità di analisi del vissuto ha offerto ad alcuni genitori la possibile differenza nel crescere un figlio, resistendo alle vecchie pratiche, la consapevolezza, l’idea che qualcosa andava cambiato e che, se il sentire di adulti strideva con l’educazione ricevuta, dunque qualcosa davvero andava rivisto.

Una breve riflessione ancora su quanto detto, ovvero sull’importanza delle parole, sulla successione temporale delle dottrine educative, sul nostro trascorso personale l’ho ritrovata in un testo differente dai canonici testi di divulgazione pedagogica; o forse è proprio grazie a questo, a un suo breve passaggio che nasce l’articolo.

Sto parlando de “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio, edito da Einaudi, e il passaggio è il seguente:

“Adriana teneva il bambino in braccio, già si stava calmando. Lo cullava con movimenti leggeri, il viso ancora rosso e sconvolto, ciocche di capelli appiccicati alla fronte dal sudore. – Come ti sei permessa di toccare mio figlio? – ha detto il padre alzandosi di colpo. La sedia si è rovesciata dietro di lui. Ansimava, una vene in rilievo gli pulsava sul collo. Adriana non lo ha neppure considerato. Ha restituito con delicatezza il bambino a sua madre. – Gli si era incastrata la mano tre le sponde del letto, – ….” “…- Sei stata grande, – le ho detto. – Qualcuno doveva andarci da quella creatura. Non ci hanno pensato che strillava per il dolore? …”.

Il bambino e i tre anni

La natura, nella sua infinita sapienza, traccia una linea di demarcazione fra i primi tre anni di vita del bambino e il periodo successivo.

La prima infanzia è paragonata, da Maria Montessori, alla vita embrionale.

Durante questo primo periodo ci sono sviluppi, separati e indipendenti, come il linguaggio, il movimento, la coordinazione, ma privi di quella consapevolezza che sorgerà dal terzo anno di vita in poi, come una nuova nascita.

L’unità cosciente, della personalità di un bambino, si manifesta solo quando varie parti, sia queste fisiche che celebrali, sono compiute.

Il bambino di tre anni perfeziona, in coscienza, le precedenti acquisizioni, come il linguaggio appreso, che si arricchisce sempre di più di significato.

La mano diviene l’organo principale della volontà, e il suo sviluppo motorio adesso è sviluppo di coscienza e interazione col mondo, non più dunque esercizio, ma reciprocità tra pensiero e realtà tangibile.

Manualità fine. Avvitare e svitare impugnando un cacciavite è un esercizio molto utile per esercitare la manualità fine. Cambiando la dimensione degli strumenti di può procedere per difficoltà.

Avrete per certo notato quanto i bambini, in questa seconda fase della vita, siano assorbiti quando lavorano manualmente, questo perché al gesto manuale è subentrata adesso la contezza.
E mi riferisco al maneggiare cose e oggetti che appartengono alla vita vera.

Il bambino sente il bisogno di riprodurre il lavoro degli adulti, lasciando noi meravigliati dalla capacità di gestire e collaborare, dal provato interesse che li spinge all’imitazione, tralasciando i giochi in suo possesso ( giochi tra l’altro finiti, inanimati ).

Il coltello fa paura? No! Utilizzando una lama non affilata, ma dentata e cibi facili da tagliare anche i bimbi piccoli posso aiutare in cucina e avere la soddisfazione di preparare i pasti.

In situazioni semplici con minore varietà di stimoli indotti, il bambino appare più sereno perché libero di provare e di vivere appieno la propria natura.

Solitamente offriamo loro giochi che spesso finiranno col rompere, smontare, passando da questo all’altro senza in realtà soffermarsi su nessuno, per poi risolvere che
impastare della farina, lavororare con della terra, cucinare, sono attività che assorbono il bambino. Sapete il perché? Non vi è vita reale in un gioco impersonale.
Non sforziamoci dunque di offrirgli mille giochi e altrettante attività; ciò che a loro occorre in questo nuovo stadio evolutivo è quello che hanno attorno a sé.
Il bambino a questa età si impegna ad imitare gli altri in tutte le esperienze della vita, ma dobbiamo offrigli la possibilità di farlo.

Anche gli attrezzi da giardino con la supervisione di un adulto possono essere utilizzati. Le forbici per raccogliere le arance richiedono una buona impugnatura e la capacità di dosare la forza. Ottimo esercizio!

Quando i bambini ebbero finalmente in mano oggetti veri e reali, la loro prima reazione non fu quella che ci eravamo aspettati. Mostrarono una personalità diversa, affermando la propria indipendenza e rifiutando ogni aiuto.”

(Educazione per un mondo nuovo).

Una madre e prima di tutto una persona. Questione di priorità

Preparati, la tua vita cambierà”.

Questa è la frase che fa seguito alle felicitazioni per l’arrivo di un figlio. L’abbiamo udita tutte noi madri almeno una volta, in famiglia, fra gli amici, al lavoro.

Ho guardato le risposte ai sondaggi che ho proposto; varie, differenti, ognuna a rappresentare grandi, piccole priorità; perché è proprio di questo che si tratta, ovvero di un “cambiamento” nell’ordine delle priorità personali che la nascita di un bambino rimescola, ribalta, cancella o pone in sospensione.

Ognuna di noi, prima di essere madre, é una persona con interessi diversi, ambizioni più o meno marcate, aspettative…tantissime.

Fate caso al fatto che non si parla già di “persona” affrontando l’argomento, ma di donna e dunque di madre, come se dietro questa nostra identità la persona non fosse mai contemplata, o se lo fosse, davvero poco.

Da quando sono diventata madre, la vita mi è apparsa più morbida, più ampia, come se ciò che ogni giorno faccio avesse adesso una diversa dimensione, una ulteriore dimensione dalla quale posso assaporare quell’essenza alle priorità, che ovviamente restano le mie di sempre, ma su piani differenti.

La cura del corpo, la femminilità vanno curate sempre, ma non è l’unica cosa che a me manca in termini di tempo.
L’idea negativa della donna che non più torna in forma smagliante, che trascura se stessa, sembra essere un pensiero che accompagna molto più le donne nei confronti di altre donne, stereotipando.

Prenditi cura di te stessa e vai a farti bella”!

Non già:

Cosa ti manca come persona”?

A me manca potere sedere in silenzio e leggere un libro tutto d’un fiato. Amo leggere, e non mi piace essere interrotta, ma la sera sono troppo stanca per immergermi in letture che mi accompagnerebbero fino al mattino. E vorrei essere padrona del mio tempo per poter decidere che a mezzodì, invece che preparare il pranzo, possa sedere in poltrona e leggere ciò che più mi piace. Mi manca pensare, restare in silenzio e perdermici dentro. Scrivere senza dover rileggere cento volte ciò che ho scritto, perché interrotta o distratta.

Sono sicuramente una donna migliore da quando è nato mio figlio, e una donna nuova, differente perché madre, ma del tutto simile a prima in quanto individuo.

Non ero pronta a dar credito alla frase sul cambiamento che faceva seguito alle molte felicitazioni sulla maternità. La vita cambia, ma non nell’essere; nei modi e nei tempi sì.

La magia sta forse in questo: restando chi si era, immaginare le proprie passioni e antiche priorità come un tesoro un po’ nascosto da riscoprire pian piano, e assieme al proprio bambino ridarne senso e importanza. Ma pian piano…appunto.

La cultura che crea la differenza. Educhiamoli all’autonomia attraverso la parità di genere

È la cultura generale, estesa, collettiva che crea la differenza, o l’educazione specifica, mirata, famigliare in cui ti hanno insegnato determinati concetti e concezioni a determinarne la soggettività?

Parità di genere

Avevo 15 anni e frequentavo la scuola magistrale; svolgevo il tirocinio, e in uno di quei giorni avevo il compito di spiegare la figura e il ruolo della mamma nella vita domestica.

La raccontai dall’alto dei miei 15 anni e con il solo modo che conoscevo, con la sola educazione impartitami dalla società contemporanea e dalla famiglia calata in essa.

Il concetto, le parole, sono racchiuse in questa piccola frase, profondamente significativa :

Angelo del focolare”.

Sono cresciuta con 3 fratelli che, con in piú mio padre, formavano il quartetto di maschi in casa. Mi rendo conto che evidentemente questo rapporto numerico, questa presenza tutta al maschile, ha cambiato la mia visione del mondo.

Non mi sono fermata a quello che volevano farmi credere.

Ho sentito sempre ingiusta l’idea della donna come detentrice unica della casa, ho sempre creduto che l’uomo, come genere, fosse capace da solo di badare a sé stesso senza dover per forza aver accanto una balia.

Ho scelto di accompagnarmi ad un uomo che potesse rispecchiare questi miei pensieri e assieme, oggi, cresciamo nostro figlio con questo modus vivendi, con tale intesa nei confronti del mondo.

Uomini e donne hanno gli stessi diritti e le stesse opportunità, un uomo che collabora alla vita familiare non è fortuna ma normale collaborazione.

Educare un bambino alla parità di genere si può: con l’esempio, con la parola.

Un bambino che fa attività di cucito, che gioca a passare l’aspirapolvere o a spolverare, che sparecchia invece di alzarsi senza badare a ciò che ha lasciato a tavola, non diverrà meno maschio; così come una bimba che sappia dire di chiavi inglesi e fuorigioco non perderà poi nulla del suo essere, ma impareranno che alcune attività fanno parte della quotidianità e della normale vita familiare.

Educhiamoli all’autonomia anche attraverso la parità di genere .