La gentilezza è l’arma dei più forti (Stephen Littleword)

Il 13 Novembre è la giornata mondiale della gentilezza. Introdotta nel 1998 dal World Kindness Movement, è osservata in molti paesi, tra cui Canada, Giappone, Australia, Nigeria e Emirati Arabi Uniti.
Nella giornata mondiale della gentilezza si invita il mondo a mettere in evidenza le buone azioni nella comunità, concentrandosi sul potere positivo della gentilezza che lega gli uomini.

A partire dal 1998 si è diffusa in tutto il mondo. La bellezza dei piccoli gesti, la pazienza, la cura, l’ascolto dei bisogni degli altri senza perdere mai di vista i propri.

Di seguito alcuni libri sul tema

È facile essere gentili. È sufficiente dire grazie, regalare un sorriso, tendere la mano, condividere… Questo dolcissimo libro insegna che, se siamo gentili con gli altri, gli altri lo saranno a loro volta con noi. Etá di lettura 3 anni

Esistono delle parole che hanno il potere di far spuntare il sorriso. Sono parole magiche e sono talmente semplici che anche i più piccoli le possono imparare. Sono: buongiorno, per piacere, grazie, bravo, benvenuto, scusa, ti voglio bene, ti aiuto io. Sono le parole della gentilezza. Età di lettura: da 3 anni.

Un volume pensato per sensibilizzare i più giovani su importanti tematiche sociali, con un titolo che affronta in particolare il problema dell’egoismo, nelle sue molteplici forme e con le sue spesso terribili conseguenze. I ragazzi troveranno tra queste pagine 10 idee per correggere e migliorare i propri comportamenti in nome della gentilezza, per essere più aperti, inclusivi e rispettosi verso gli altri. A casa, a scuola, per strada… Per rendere il mondo un posto migliore, giorno dopo giorno. Età di lettura: da 7 anni.

La gentilezza custodisce il segreto per instaurare relazioni solide, autentiche, di fiducia, che ci aiutano a conseguire i risultati desiderati in tutti gli ambiti della nostra esistenza privata e sociale. Non ha niente a che vedere con la manipolazione né con l’essere ben educati o manierosi. La gentilezza è un bene complesso e potentissimo, che appartiene a ciascuno di noi, ma che va riscoperto e praticato quotidianamente, perché porti i suoi frutti migliori.

La morte spiegata ai bambini. Le parole, l’autenticità dei gesti

Una delle tematiche più difficili che mi trovavo a dover affrontare nel mio ruolo di educatrice, riguardava l’idea legata alla morte, spiegata ai bambini.

Poi un giorno, quando divenni madre, formulai nella mia mente questa stessa idea, questa difficoltà, ma da un ulteriore punto di vista.

Quando è nato mio figlio ho creduto che non avrei vissuto abbastanza per gioire.

Parlare della morte resta ancora per molti un tabù.

Ricordo ancora quella stanza dedicata, con le sue luci soffuse e le sue grandi ombre. Sentivo le voci di chi mi attorniava, concitate come in una scatola avvolta in uno strato spesso di plastica antiurto; io mi affacciavo a vivere una nuova vita, eppure la domanda che mi risuona con quel briciolo di lucidità che mi restava era, “come glielo avrebbero spiegato che di lì a poco…?”.

Sono qui a scrivervi sul come possiamo raccontarlo ai bambini, perché non si è mai veramente pronti per farlo.

L’emozione che tutti noi proviamo pensando alla morte é senza ombra di dubbio la tristezza, e in questa tristezza, in questo stato di delusione che dunque dobbiamo trovare il modo per raccontarla.

Come affrontarla con i bambini, garantendo e proteggendo e rispettando il dolore?

Non si può fingere di essere felici, le emozioni vanno vissute per ciò che sono, attraversate e processate; ognuno di noi troverà poi il proprio modo personale,la propria maniera autentica di vivere il dolore.

Un bambino si trova a volte ad affrontare questo tema sin da piccolo, con la morte di un animale o con la perdita di un persona vicina, o a volte leggendo una storia. C’è dunque un prima e un dopo.

Il mondo dell’editoria offre spunti interessanti. Molti sono gli albi che la raccontano in modo chiaro, basta volerne parlare e condividere, e proprio attraverso un libro cerchiamo il più delle volte risposte che possano alleggerirci.

L’isola del nonno

Con tutta onestà, ammetto che non esistono delle risposte assolute, giuste o sbagliate: dobbiamo accettare che non esistono proprio risposte.

Vivo come adulto il tema dell’impotenza di non aver risposte a tutte le domande; questo è un sentimento che va accolto perché un abbraccio silenzioso può incantare, raccontare più di un detto. Le parole giungeranno a tempo debito.

Ci viene naturale porci domande sul come affrontare i molti quesiti che riguardano il tema, i comportamenti che emergono, le bizzarrie. Come accompagnarli dunque in questa esperienza dirompente?

Le modalità che scegliamo di adottare differiscono in base all’età dei bambini.

Fondamentale è sapere che un bambino al di sotto dei tre anni difficilmente chiederà spontaneamente della morte, e più che le parole, sono le nostre emozioni e i nostri comportamenti che genereranno domande e daranno risposte.

I bambini non ri-conoscono la morte, ma l’assenza.

Diversa è invece la prospettiva dei bambini dai tre ai sei anni.

In essi l’idea della morte è percepita, ma sarà difficile capire che una persona morta non tornerà più. In questo la loro spontaneità è disarmante, quasi fuori luogo: “quando il nonno tornerà giocherà con me” come se dovesse tornasse da una lunga vacanza.

Complice di questo comportamento è il fatto che ci troviamo in una fase di pieno egocentrismo, dove è lui al centro del tutto, senza riuscire a percepire la differenza tra la propria visuale e quella degli altri.

Pian piano che crescerà i pensieri saranno processati diversamente essendo più agganciati alla realtà, percependo la vita, e dunque la morte, in modo differente.

Dunque tra i sei e dieci anni anni si comprenderà l’irreversibilità della morte, anche se resta il concetto del “sempre” che è difficile da afferrare. Possono nascere sentimenti contrastanti legati anche alla dimensione del corpo, della sofferenza, della malattia, di qualcosa che non funziona più.

In questa fase è importante renderli partecipi dei rituali legati alla morte. Spieghiamo loro, attraverso delle metafore, cosa accadrà o cosa è accaduto, e attendiamoci che la consapevolezza, divenuta anche paura, divenga concreta e spesso estesa a tutti.

Potrebbero emergere domande forti, chiare, dirette, che andranno per questo accolte tutte e mai negate, anche se per noi difficili da chiarire in momenti in cui il nostro unico e medesimo desiderio sarebbe eclissarsi dal mondo.

Anche in occasioni così dolorose noi adulti rappresentiamo il tramite tra la mente e il suo cuore. Attraverso la nostra presenza, il bambino troverà il proprio modo di processare il dolore.

Più passeranno gli anni e più i bambini avranno consapevolezza che quello che vive può anche morire.

In fase preadolescenziale, o comunque dopo il decimo, dodicesimo anno, non si è abbastanza grandi per affrontare il dolore, tanto meno piccoli per correre a piangere tra le braccia di un adulto già provato dal dolore. Il rischio potrebbe essere l’isolamento, l’auto comprensione che crea un muro inevitabile tra sé e il dolore, nascondendo in questo modo le emozioni più autentiche, quelle più difficili da raccontare se non si è allenati a farlo.

Se sei arrivato sin qui hai attraversato momenti difficili e ancora cerchi risposte. Come abbiamo detto inizialmente, non esistono ricette magiche ma solo accorgimenti importanti. Le parole, l’autenticità dei gesti, la chiarezza e il rispetto dei tempi per un argomento non sempre facile da affrontare con nostro figlio.

Aspettiamo che siano loro, i bambini, a fare domande. Se proprio non esiste un imminente bisogno, inutile forzare la mano.

Affrontare una tematica così delicata, implica inevitabilmente parlare della vita, di legami, di lutti; implica mettere a nudo racconti profondi che decidiamo a questo punto di condividere nella loro interezza.

Aver valore della vita è un atto di responsabilità. Compito di noi adulti è aiutare i bambini a divenirne consapevoli in ogni sua forma.

Dotare i bambini di strumenti per vivere il dolore, rendendoli consapevoli di come possano essere affrontati, processati e superati è un compito arduo ma necessario.

Un incontro speciale. Vale sempre la pena mettersi in ascolto

Da quando siamo qui in vacanza dalla nonna, frequentiamo un parco comunale che abbiamo imparato a conoscere in ogni suo dettaglio: foglie, alberi di pino marittimo, cespugli di fiori colorati e sì, anche i giochi (ma questa è la parte che meno ci attrae).

Oggi, sempre al parco, abbiamo incontrato Claudio, un bimbo che ho sentito subito essere nelle mie corde.

Strano trovare un bimbo al parco in quelle primissime ore; è mattino e le scuole ormai sono tutte iniziate, i parchi silenziosi, come sanno esserlo solo d’autunno perché tutti si è in classe.

Claudi no; oggi della scuola non ne ha voluto saperne, o almeno così mi racconta suo padre. Ha preferito giocare all’aperto con un pallone da calcio che ha poi volentieri condiviso con noi.

Condivisione

Mi ha detto che non gli andava di andare a scuola perché la maestra in classe urla con i suoi compagni, e quando lei urla, lui si spaventa.

Sono rimasta silenziosa ad ascoltarlo.

Vale sempre la pena ascoltare i bambini e le emozioni che ci raccontano, perché ci dicono qualcosa che forse non riusciamo a vedere con gli occhi.

Ci sono bambini che non riescono ad esprimere pienamente ciò che in quel momento li turba, sopratutto se non sono stati abituati a farlo. Sono quei bambini che spesso vengono definiti timidi, introversi, quelli che Elaine Aron definisce “bambini altamente sensibili”.

Chi sono i bambini altamente sensibili?

L’alta sensibilità è un tratto temperamentale innato a base genetica, piuttosto diffuso, sia tra gli umani che in altre specie animali.

Le persone ( in generale)altamente sensibili hanno una soglia percettiva inferiore rispetto agli stimoli sensoriali, emotivi e sociali, per questo riescono a percepire e sentire in maniera più veloce e intensa ciò che arriva dall’ambiente.

I bambini che possiedono questi tratti hanno bisogno di adulti che riescano a sintonizzarsi con i loro bisogni, capaci di comprendere la loro caratteristica, di rassicurarli e di filtrare gli stimoli ambientali affinché non diventino caotici per i bambini stessi. Significa avere attenzione per suoni, luci, odori, sapori, tocchi.

Un ambiente caotico, con luci troppo intense, rumori forti, tensioni emotive, può creare molta difficoltà ad un bambino sensibile, destabilizzandolo.

E’ importante che gli adulti (genitori, e coloro che lavorano con i bambini) diventino consapevoli di queste caratteristiche per potersi attivare nel ricercare modalità e strategie in grado di rassicurare, contenere, supportare questi bambini nel loro percorso di crescita.

Forse, se la maestra di Claudio ne fosse stata consapevole, il suo piccolo alunno sarebbe stato lì in classe con lei quella mattina d’autunno.

Parco “Salvo D’Acquisto”

Chiamali se vuoi manualetti

Quando scegli di confrontarti in argomenti delicati, primari come la maternità, la genitorialità e i bambini, è necessario porre molte attenzione alla scelta e all’uso delle parole, al loro significato e alla loro etimologia. Il rischio, nel non porre in attenzione la qualità del nostro dire, è creare confusione, generalità, spazio per opposti schieramenti, faziosità o inutili polveroni. Ecco che è allora utile un’attenta riflessione in merito.

Maternità

Parlare di maternità richiede innanzitutto definirne il termine, per averne maggiore chiarezza.

Winnicott definisce la maternità quale “preoccupazione materna primaria” che nasce dal rapporto empatico che una madre ha con il proprio figlio. Ma perché tale fiducia si stabilizzi, continua Winnicott, è necessario che la madre sia capace di una disponibilità autentica, rinunciando a volersi realizzare come madre perfetta, accettando invece di essere una madre “sufficientemente buona“.

Diventare madri non è un’esperienza semplice, dover gestire quotidianamente un bambino richiede energie, sia fisiche che psichiche, soprattutto quando la società pretende che tu sia una madre buona e perfetta.

Accade quindi che per riuscire a realizzare tale perfezione un genitore, ma soprattutto una madre, a cui viene richiesto un impegno e una disponibilità costante, inizi a leggere, informarsi, ricercando tesi e teorie che riescano a supportare tale idea di compiutezza.

Le teorie pedagogiche sono cambiate nel tempo attraverso l’osservazione e gli studi, e spesso a discapito degli stessi bambini, talvolta anche degli adulti, che hanno subito retaggi di pratiche poco in linea alla crescita armoniosa di un bambino, spacciate come etiche, impedendo di vedere i bambini come persone; o goduto di visioni e lungimiranti saggezze.

Ricordiamo quasi tutti la frase “i bambini vanno raddrizzati finché si è in tempo”: era idea e pratica comune imporre un rigore educativo assimilabile a un fusto vegetale da dover far crescere in altezza ma costretto in una severità al pari di un legaccio per tronchi. Eppure, quanti pedagogisti del nostro ‘900 sono stati ascoltati e le loro pratiche eseguite, anche se avventate o errate? Tanti da esser troppi.

Ancora oggi, nonostante il passare degli anni, molti manualetti di grande successo sono ancora consigliati. Per volerne citare solo alcuni, senza spingerci nel campo dell’editoria che pure comprende manuali sul come insegnare a partorire, dirò dello spietato Estivill, medico catalano che insegnava ai genitori come far dormire un bambino con il suo libro “Fate la nanna”, a Trasy Hogg, puericultrice inglese che scrive “Il linguaggio segreto dei neonati”.

Genitori rimproverati di accorrere troppo velocemente ai bisogni dei bambini, madri sminuite per non essere capaci di partorire senza lamentarsi.

Vorrei soffermarmi nello specifico proprio sul libro di Trasy Hogg, perché io stessa ne ho fatto esperienza. Nel suo volumetto, apparentemente lineare, alterna momenti di riconoscimento dei bisogni del bambino a momenti in cui la richiesta, espressa col pianto, sarebbe da ignorare, rimandare o soprassedere da parte del genitore. Questo temporeggiare, trova risposta educativa nella capacità, spartana per il bambino, di potersi autoregolare e divenire indipendente.

“Quando il vostro piccolo piange, l’istinto naturale sarebbe quello di correre da lui. Probabilmente pensate che sia in difficoltà o, peggio, che il pianto sia una cosa negativa. In realtà è importante imparare a dominare queste emozioni, fermandosi un momento a riflettere.

Ma dopo che ho riflettuto, chiederei oggi a Hogg, aspetto che il bambino o la bambina mi facciano capire se il loro pianto racconti del freddo o della fame, di un dolore o di una difficoltà, dunque intervengo? Oppure, in mancanza di una risposta che non giunge da una riflessione, trascuro l’evento, il pianto, la richiesta?

A volte, involontariamente, si nega l’amore favorendo nei figli quel distacco emotivo, credendolo utile e necessario, soprattutto quando un bambino è molto piccolo. Quanto più piccolo è il bambino tanto più necessita di un adulto per poter sopravvivere. “I bisogni dei bambini sono intensi, urgenti e “inrinunciabili” afferma Antonella Sagone nel suo libro La Rivoluzione della tenerezza.

Riuscire a sintonizzarsi sui bisogni dei bambini richiede un lungo e profondo lavoro personale, l’essere capaci di ascoltarsi, scardinando ciò che è stato, svincolandosi da chi ha orbitato nella nostra vita e non sia riuscito a sintonizzarsi sui nostri bisogni. Da come decideremo di percorrere la strada si determinerà la capacità di ostacolare o imparare ad esprimere un nostro bisogno, senza incolpare chi ci sta accanto di ciò che noi in realtà non siamo stati capaci di esprimere, riuscendo anche nella capacità di suddividere il carico familiare, reso per questo meno oneroso.

Il carico familiare va suddiviso sempre

Sono piuttosto i mondi che ci hanno abitato a dover essere riveduti e corretti, quelli che ci hanno offerto l’esempio, l’idea di comunità, il villaggio che ci ha sostenuti, che ha reso la congiunzione tra il nostro mondo di oggi e quello dei bambini che siamo stati. E c’è poi una vocina che arriva da lontano anch’essa, che ha oggi determinato il cambiamento, l’autorizzazione a dissentire dinnanzi a un atteggiamento. Oggi questa capacità di analisi del vissuto ha offerto ad alcuni genitori la possibile differenza nel crescere un figlio, resistendo alle vecchie pratiche, la consapevolezza, l’idea che qualcosa andava cambiato e che, se il sentire di adulti strideva con l’educazione ricevuta, dunque qualcosa davvero andava rivisto.

Una breve riflessione ancora su quanto detto, ovvero sull’importanza delle parole, sulla successione temporale delle dottrine educative, sul nostro trascorso personale l’ho ritrovata in un testo differente dai canonici testi di divulgazione pedagogica; o forse è proprio grazie a questo, a un suo breve passaggio che nasce l’articolo.

Sto parlando de “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio, edito da Einaudi, e il passaggio è il seguente:

“Adriana teneva il bambino in braccio, già si stava calmando. Lo cullava con movimenti leggeri, il viso ancora rosso e sconvolto, ciocche di capelli appiccicati alla fronte dal sudore. – Come ti sei permessa di toccare mio figlio? – ha detto il padre alzandosi di colpo. La sedia si è rovesciata dietro di lui. Ansimava, una vene in rilievo gli pulsava sul collo. Adriana non lo ha neppure considerato. Ha restituito con delicatezza il bambino a sua madre. – Gli si era incastrata la mano tre le sponde del letto, – ….” “…- Sei stata grande, – le ho detto. – Qualcuno doveva andarci da quella creatura. Non ci hanno pensato che strillava per il dolore? …”.

Il bambino e i tre anni

La natura, nella sua infinita sapienza, traccia una linea di demarcazione fra i primi tre anni di vita del bambino e il periodo successivo.

La prima infanzia è paragonata, da Maria Montessori, alla vita embrionale.

Durante questo primo periodo ci sono sviluppi, separati e indipendenti, come il linguaggio, il movimento, la coordinazione, ma privi di quella consapevolezza che sorgerà dal terzo anno di vita in poi, come una nuova nascita.

L’unità cosciente, della personalità di un bambino, si manifesta solo quando varie parti, sia queste fisiche che celebrali, sono compiute.

Il bambino di tre anni perfeziona, in coscienza, le precedenti acquisizioni, come il linguaggio appreso, che si arricchisce sempre di più di significato.

La mano diviene l’organo principale della volontà, e il suo sviluppo motorio adesso è sviluppo di coscienza e interazione col mondo, non più dunque esercizio, ma reciprocità tra pensiero e realtà tangibile.

Manualità fine. Avvitare e svitare impugnando un cacciavite è un esercizio molto utile per esercitare la manualità fine. Cambiando la dimensione degli strumenti di può procedere per difficoltà.

Avrete per certo notato quanto i bambini, in questa seconda fase della vita, siano assorbiti quando lavorano manualmente, questo perché al gesto manuale è subentrata adesso la contezza.
E mi riferisco al maneggiare cose e oggetti che appartengono alla vita vera.

Il bambino sente il bisogno di riprodurre il lavoro degli adulti, lasciando noi meravigliati dalla capacità di gestire e collaborare, dal provato interesse che li spinge all’imitazione, tralasciando i giochi in suo possesso ( giochi tra l’altro finiti, inanimati ).

Il coltello fa paura? No! Utilizzando una lama non affilata, ma dentata e cibi facili da tagliare anche i bimbi piccoli posso aiutare in cucina e avere la soddisfazione di preparare i pasti.

In situazioni semplici con minore varietà di stimoli indotti, il bambino appare più sereno perché libero di provare e di vivere appieno la propria natura.

Solitamente offriamo loro giochi che spesso finiranno col rompere, smontare, passando da questo all’altro senza in realtà soffermarsi su nessuno, per poi risolvere che
impastare della farina, lavororare con della terra, cucinare, sono attività che assorbono il bambino. Sapete il perché? Non vi è vita reale in un gioco impersonale.
Non sforziamoci dunque di offrirgli mille giochi e altrettante attività; ciò che a loro occorre in questo nuovo stadio evolutivo è quello che hanno attorno a sé.
Il bambino a questa età si impegna ad imitare gli altri in tutte le esperienze della vita, ma dobbiamo offrigli la possibilità di farlo.

Anche gli attrezzi da giardino con la supervisione di un adulto possono essere utilizzati. Le forbici per raccogliere le arance richiedono una buona impugnatura e la capacità di dosare la forza. Ottimo esercizio!

Quando i bambini ebbero finalmente in mano oggetti veri e reali, la loro prima reazione non fu quella che ci eravamo aspettati. Mostrarono una personalità diversa, affermando la propria indipendenza e rifiutando ogni aiuto.”

(Educazione per un mondo nuovo).

Una madre e prima di tutto una persona. Questione di priorità

Preparati, la tua vita cambierà”.

Questa è la frase che fa seguito alle felicitazioni per l’arrivo di un figlio. L’abbiamo udita tutte noi madri almeno una volta, in famiglia, fra gli amici, al lavoro.

Ho guardato le risposte ai sondaggi che ho proposto; varie, differenti, ognuna a rappresentare grandi, piccole priorità; perché è proprio di questo che si tratta, ovvero di un “cambiamento” nell’ordine delle priorità personali che la nascita di un bambino rimescola, ribalta, cancella o pone in sospensione.

Ognuna di noi, prima di essere madre, é una persona con interessi diversi, ambizioni più o meno marcate, aspettative…tantissime.

Fate caso al fatto che non si parla già di “persona” affrontando l’argomento, ma di donna e dunque di madre, come se dietro questa nostra identità la persona non fosse mai contemplata, o se lo fosse, davvero poco.

Da quando sono diventata madre, la vita mi è apparsa più morbida, più ampia, come se ciò che ogni giorno faccio avesse adesso una diversa dimensione, una ulteriore dimensione dalla quale posso assaporare quell’essenza alle priorità, che ovviamente restano le mie di sempre, ma su piani differenti.

La cura del corpo, la femminilità vanno curate sempre, ma non è l’unica cosa che a me manca in termini di tempo.
L’idea negativa della donna che non più torna in forma smagliante, che trascura se stessa, sembra essere un pensiero che accompagna molto più le donne nei confronti di altre donne, stereotipando.

Prenditi cura di te stessa e vai a farti bella”!

Non già:

Cosa ti manca come persona”?

A me manca potere sedere in silenzio e leggere un libro tutto d’un fiato. Amo leggere, e non mi piace essere interrotta, ma la sera sono troppo stanca per immergermi in letture che mi accompagnerebbero fino al mattino. E vorrei essere padrona del mio tempo per poter decidere che a mezzodì, invece che preparare il pranzo, possa sedere in poltrona e leggere ciò che più mi piace. Mi manca pensare, restare in silenzio e perdermici dentro. Scrivere senza dover rileggere cento volte ciò che ho scritto, perché interrotta o distratta.

Sono sicuramente una donna migliore da quando è nato mio figlio, e una donna nuova, differente perché madre, ma del tutto simile a prima in quanto individuo.

Non ero pronta a dar credito alla frase sul cambiamento che faceva seguito alle molte felicitazioni sulla maternità. La vita cambia, ma non nell’essere; nei modi e nei tempi sì.

La magia sta forse in questo: restando chi si era, immaginare le proprie passioni e antiche priorità come un tesoro un po’ nascosto da riscoprire pian piano, e assieme al proprio bambino ridarne senso e importanza. Ma pian piano…appunto.

La cultura che crea la differenza. Educhiamoli all’autonomia attraverso la parità di genere

È la cultura generale, estesa, collettiva che crea la differenza, o l’educazione specifica, mirata, famigliare in cui ti hanno insegnato determinati concetti e concezioni a determinarne la soggettività?

Parità di genere

Avevo 15 anni e frequentavo la scuola magistrale; svolgevo il tirocinio, e in uno di quei giorni avevo il compito di spiegare la figura e il ruolo della mamma nella vita domestica.

La raccontai dall’alto dei miei 15 anni e con il solo modo che conoscevo, con la sola educazione impartitami dalla società contemporanea e dalla famiglia calata in essa.

Il concetto, le parole, sono racchiuse in questa piccola frase, profondamente significativa :

Angelo del focolare”.

Sono cresciuta con 3 fratelli che, con in piú mio padre, formavano il quartetto di maschi in casa. Mi rendo conto che evidentemente questo rapporto numerico, questa presenza tutta al maschile, ha cambiato la mia visione del mondo.

Non mi sono fermata a quello che volevano farmi credere.

Ho sentito sempre ingiusta l’idea della donna come detentrice unica della casa, ho sempre creduto che l’uomo, come genere, fosse capace da solo di badare a sé stesso senza dover per forza aver accanto una balia.

Ho scelto di accompagnarmi ad un uomo che potesse rispecchiare questi miei pensieri e assieme, oggi, cresciamo nostro figlio con questo modus vivendi, con tale intesa nei confronti del mondo.

Uomini e donne hanno gli stessi diritti e le stesse opportunità, un uomo che collabora alla vita familiare non è fortuna ma normale collaborazione.

Educare un bambino alla parità di genere si può: con l’esempio, con la parola.

Un bambino che fa attività di cucito, che gioca a passare l’aspirapolvere o a spolverare, che sparecchia invece di alzarsi senza badare a ciò che ha lasciato a tavola, non diverrà meno maschio; così come una bimba che sappia dire di chiavi inglesi e fuorigioco non perderà poi nulla del suo essere, ma impareranno che alcune attività fanno parte della quotidianità e della normale vita familiare.

Educhiamoli all’autonomia anche attraverso la parità di genere .

Lasciami essere,lasciami fare da solo. Perché restare un passo indietro

Bambini bizzarri

Qual è il modo migliore in cui dovrebbe porsi un adulto nei confronti del bambino?

Sicuramente come un osservatore attento e partecipe, spettatore della sua crescita, pronto ad esserci allorquando richiesto.

Troppo spesso ci sostituiamo al bambino; troppo spesso ci prendiamo la briga di fare per lui.

Nessuna sostituzione di ruoli andrebbe mai effettuata; nessuna correzione diretta di una azione ritenuta scorretta. La sollecitudine del provare e riprovare, errore dopo errore, permetterà al nostro bambino di misurare la propria autostima, accrescerla e farne una risorsa, in misura inesauribile per il futuro di uomo.

Quante volte in una giornata gli permettiamo di sperimentare?
Da quando si sveglia a quando va a dormire quante volte abbiamo fatto al posto suo?
Un bambino che non sperimenta si convincerà di non saperlo fare e smetterà di provarci.

I bambini che intraprendono la lunga strada dell’autonomia, del vestirsi da soli, del mangiare da soli, saranno collaboratori in famiglia, lenti, talvolta bizzarri, ma un vero aiuto per mamma e papà.

Diamo loro la possibilità di farlo, restiamo un passo indietro, sforziamoci di non intervenire, concordiamo orari più lenti, ambienti pensati a misura di bambino perché non debba sempre chiedere aiuto per svolgere quel compito. Una volta sicuro delle sue abilità e con la giusta dose di incoraggiamento, troverai dinnanzi a te un bambino competente, di quella competenza naturale, né forzata ne smorzata.

Un bambino è dunque disposto a migliorare sempre sé stesso ed il mondo attraverso l’azione consapevole e libera da condizionamenti.
Capace di essere e non solo di fare.
Capace d’apprendere ed insegnare.

Perchè ho scelto di diventare padre. Quanto ciò che scegliamo è dettato dalle emozioni, quanto dalla ragione

Festa del papà

Cuore e mente, mente e ferro.

Fra i grandi dilemmi umani, uno in particolare rappresenta un conflitto.

Indagato e raccontato da millenni, trasposto in arte, letteratura, musica, poesia; il disaccordo tra la ragione e il sentimento, tra la logica e l’emozione, tra il pensiero analitico e la formulazione emozionale è e resta senza vincitori o vinti (almeno per ciò che riguarda la nostra specie).

Fantasticando oltre, potremmo risolvere la contesa affermando che il nostro genere ha però ineluttabilmente scelto la via dell’inquietudine.

Fra i grandi pensatori del secolo scorso, uno in particolare si interrogò su ciò che è umano e ciò che non lo è, ovvero tra noi esseri coscienti e le macchine intelligenti.

Isaac Asimov, biochimico e scrittore russo naturalizzato statunitense, produsse una serie infinita di racconti e romanzi fantascientifici incentrati su un futuro che vedeva l’umanità affiancata da intelligenze artificiali, e dalla loro maggiore incarnazione: i robot. Formulò in letteratura quelle che in campo scientifico, nel reale, sono state adottate quali guide per il consolidamento di qualunque macchina votata ad asservire l’uomo, ovvero le “tre leggi della robotica”, e produsse ulteriormente il dubbio sul confine tra coscienza umana e coscienza robotica, tra pensiero emozionale e pensiero, appunto, analitico.

Ne parlavamo con mia moglie all’ora di pranzo, seduti a tavola, fra gli sguardi fintamente distratti di nostro figlio che affondava intanto la forchetta sulla cotoletta al suo piatto e pareva invece interessatissimo al nostro dire di robot ed emozioni.
Il punto era: quanto di ciò che scegliamo è dettato dalle emozioni, quanto dalla ragione. Concludevamo che tutto il nostro agire è un riflesso emotivo, e che ciò che ammettiamo logico soltanto, in verità cela una sublimazione emotiva, se non addirittura impulsiva, carnale.

Proprio nel pensiero di scelta di mettere al mondo un figlio, di crescerlo ed educarlo, quanta logica impieghiamo e quanto stupore? E ancor prima, come e perché avremmo scelto il genitore per nostro figlio nella persona che lo incarnerà e che adesso ci è dinanzi?
Una A.I., interrogata in merito, produrrebbe una risposta negativa, perché la vita risulterebbe, a suo ben pensare, una ostilità allo stesso vivere. Forzata però a dover procreare, incrocerebbe i dati sulla ricchezza del patrimonio genetico, sul luogo e il momento della nascita, sul dato ambientale, sui fattori sociali di sviluppo, sulle prospettive di vita…

Credetemi se vi dico che smetterebbe di funzionare andando in protezione.

Questo nostro mondo è retto dal sentimento, non certo dalla ragione.

Ciò che muove il mondo non può avere la comprensione della sola nostra logica, né della logica di una macchina, di una mente di ferro. Ma ci stiamo evolvendo, trasformando il nostro mondo e il mondo che ci circonda, cercando di placare quanto più possibile la sfera emozionale a vantaggio della logica. Sceglieremo sempre meno per un sempre migliore risultato che azzeri l’errore. I nostri figli rappresenteranno il prodotto di una formula che includerà il dato del prestigio, della nostra curva economica familiare, della collocazione geografica, del tempo. La scarsa natalità in questa parte di mondo è il riflesso di una umanità sempre più legata a un pensiero artificiale; ma questa divagazione non mi compete, e la cotoletta è già finita.

Tornando invece a noi, alle nostre scelte viventi, l’idea che un figlio giunga a questo mondo, cresca e ne tragga vantaggio per tramandare ulteriormente un sapere universale, non è una idea, è un sentire; non appartiene alla ragione ma al cuore; come ogni altra scelta conseguente che ne determinerà poi il profilo, l’identità, il nome.

Abitiamo i luoghi del cuore, amiamo con gli occhi, educhiamo alla bellezza, viviamo nel fattore umano.

Nella trasposizione cinematografica di “Io, robot” del 2004 e diretta dal regista Proyas, un NS-5 posto di fronte alla scelta su chi salvare tra il protagonista Del Spooner e un bambino, sceglierà Spooner per la sola ragione che i parametri vitali di quest’ultimo lasciavano buone probabilità di salvezza, senza curarsi del fatto che l’altro fosse, appunto, solo un bambino. L’androide non aveva altra scelta che quella analitica. Il suo agire non ammetteva errori, le probabilità di portare a termine il suo compito e salvare una vita umana erano sufficienti a scartare uno o l’altro dalla condizione di pericolo. C’è riuscito, razionalmente. Ha perduto, umanamente.

Scegliete, scegliete sempre; tanto poi, sceglierete col cuore.

F.D

Esiste davvero una scuola per genitori?

Ci sono cose che in realtà non troverai mai scritte fra i libri, o meglio le troverai, ma non è detto che siano quelle giuste per tuo figlio.

Negli ultimi anni un’inversione di tendenza ammette uno stile di vita che promuove la vicinanza tra i genitori ed il piccolo, avvalorata da recentissimi studi pediatrici e da altrettante ricerche in merito. Sono nati parallelamente frequenti corsi e campagne promozionali sulla bontà di tale vicinanza che variano dall’allattamento al seno a richiesta, alla fascia porta bebè, quindi alla pratica del portare, alla condivisione del sonno.

Tutte pratiche corrette, ma…

Il contatto e la vicinanza certo regalano al bambino senso di sicurezza e fiducia. Assecondare tali pratiche e suggerimenti regala la consapevolezza di stare facendo la cosa giusta, quantomeno la migliore, però non sempre i risultati eguagliano le aspettative. Trascorsi i primi mesi, calati nella teoria e nella pratica, ci si accorge che proprio nostro figlio non risponde alla lettera a quegli stimoli del sonno che auspicavi continuati per tutta una notte; che distrarlo progressivamente dall’allattamento risulta una più ardua impresa; che il portare non è in linea col temperamento del piccolo.

Cosa accade allora nella testa delle mamme a questo punto?

Accade che queste riprendano a interrogarsi, a cercare di comprendere come abituare il proprio bambino a dormire, a condurlo fuori, a nutrirlo, insomma ad ogni altra bontà che sia stata appresa sui libri, attraverso i libri e i blog e le pagine…

Proprio sull’addormentamento, dopo due giorni di riflessioni sono giunta a questa conclusione:

Non puoi insegnare ad un bimbo a dormire, puoi aiutarlo a trovare un modo per rilassarsi dall’incessante processare di energie e stimoli, fino a scivolare nel sonno.

Ciò che cerco di dirvi è quanto segue:

Tutti i bambini dormiranno, prima o dopo. Il punto è quanto prima o quanto dopo, e con quali dinamiche. Il cervello di un bambino non è fisiologicamente maturo per dormire ininterrottamente; capita però che alcuni bambini riescano a riaddormentarsi da soli, senza che ce ne accorgiamo, attraverso risorse differenti dal pianto o dalla ricerca di contatto. I più, vanno accompagnati, accolti, compresi.